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Categoria: Cultura italiana a Monaco
Pubblicato Martedì, 17 Novembre 2015 19:57

Filumena Marturano

La compagnia teatrale monacense I-Talìa alla replica della commedia di Edoardo de Filippo

Giulia Antonelli

Monaco, 18 Novembre 2015.
«Pazz, Pazz!», grida Domenico Soriano, barba folta, abito nero, aspetto borghese. Urla, minaccia, furioso percorre il palcoscenico, punta l’indice, accusa. «Ti distruggo, malafemmina, ti distruggo!»

«Hai finito?», domanda Filumena. Un abito candido, le braccia conserte, il viso indecifrabile. Il silenzio invade la scena, marito e moglie si osservano.

Lo scorso 7 novembre, la compagnia di Luigi Tortora rende omaggio ad Edoardo de Filippo con la tragicommedia Filumena Marturano al Gasteig, portata in scena per la prima volta nel 1946. Rappresentazione coinvolgente e appassionante, ben studiata la scelta degli attori. Elisabetta Officio indossa brillantemente le vesti della protagonista e ripropone il suo personaggio in chiave del tutto personale.

«Non ti ho visto mai dormire, né piangere. Mai una lacrima su quel viso, Filume’.»

Filumena tace, impassibile, lo sguardo perso. Una figura chiara nei contorni, che risponde in maniera quasi assente alle provocazioni dell’uomo che la sta accusando di averlo ingannato.
Parla lentamente e con tono distaccato, come se non la riguardasse. Il dramma si manifesta proprio nell’impassibilità del suo personaggio. Non una sfuriata, né un grido o una reazione violenta.
Nelle prime battute, la Filumena di Tortora si circonda di silenzi, di pause prolungate, solo attraverso i monologhi permette al pubblico di entrare nei suoi ricordi. 

«Si piange quando si conosce il bene, ma si sta male. Ma Filumena il bene non l’ha mai conosciuto».
Costretta alla strada all’età di 17 anni, Filomena non conosce che il buio delle case da dove i signorotti benestanti entrano ed escono rapidi per paura d’esser visti. Tra i suoi clienti all’epoca vi è Domenico Soriani, chiamato anche Mimì, ricco proprietario di una pasticceria a Napoli. È proprio lui a prenderla con sé, a mantenerla e a lasciarle amministrare l’attività. Dopo 25 anni insieme, tuttavia, conosce una ragazza molto più giovane di lui e comunica di volerla sposare. Filumena, per evitare ciò, si finge gravemente ammalata e in punto di morte convince Mimì a sposarla in extremis. Compiuta la funzione, Filomena si alza e svela il suo inganno di fronte all’incredulità dell´uomo, divenuto a tutti gli effetti suo marito.

Dietro a questo espediente, si nasconde il dramma di una ragazza-madre che all’epoca decise di portare avanti le sue gravidanze, facendo un voto alla Madonna delle Rose di non abortire. Filumena ha dunque tre figli, ai quali vuole dare finalmente una famiglia ed un cognome, Soriani. Di fronte a questa confessione e alla richiesta di riconoscimento, Domenico si rivolge alla giustizia, deciso ad annullare il matrimonio e a cacciare la donna di casa. Filumena manda a chiamare i suoi figli.

La scelta della disposizione dei personaggi all’inizio del secondo atto semplifica allo spettatore la comprensione degli avvenimenti e permette una buona visione d’insieme. Da una parte Don Domenico e l’avvocato, la società, le leggi, l’apparenza, la moralità, i buoni valori. Dall’altra il fallimento di quei valori, i figli di nessuno, il frutto di uno scandalo mai denunciato.
Al centro Filumena, «quella con la legge sua», quella che si fa giustizia da sé.
Ma c’è un’altra veritá che Domenico non conosce.

«Una notte tornato da un tuo viaggio, mi dicesti - Filumé, spegni la luce, facciamo finta di volerci bene -. E spensi la luce. E io ti volli bene quella notte, ma tu no. E quando riaccendesti la luce, mi detti una banconota. E lì sopra segnai la data del concepimento. I figli non si pagano «, e gli restituisce la banconota. È un momento forte, dove per la prima volta entrambi i personaggi si parlano senza veli e svelano se stessi. Molto bella è l’intesa tra i due attori, la carica emotiva che ne deriva. Alla fine della vicenda, i due celebrano le nozze e Domenico riconosce i figli.
Finalmente Filumena piange.

È un gesto liberatorio, il grido di una donna annullatasi per tutta la vita e messasi al servizio di un uomo che nemmeno amava, solo per garantire un futuro sicuro ai suoi figli.

La tragedia viene qui raccontata in maniera molto particolare. Filumena non ricalca i tipici tratti meridionali: mimica appena accennata, voce calma, gesti pacati. Ciò che deriva da questa scelta artistica, è una comunicazione molto intima con lo spettatore, un dramma che invece di essere proclamato ad alta voce, ci viene appena sussurato.

 

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