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Categoria: Ecologia
Pubblicato Mercoledì, 08 Dicembre 2010 20:10

Una gita sul Po

Ovvero: i disastri ambientali del Bel Paese

Umweltkatastrophen in Italien: Erdöl im Fluss Po und Dioxin im grünen Umbrien!
Diese gravierenden Verschmutzung der Umwelt wirft Fragen auf und gibt Anlass zur Besorgnis.

Franco Casadidio

Una gita sul Po, popopopo Una gita sul Po, oh sì, per scordare la fabbrica, e passar la domenica, e distrarsi anche un po’.
Cosi faceva il ritornello di una canzone di tanti anni fa di tale Gerardo Carmine Gargiulo con la quale veniva esaltata la vena turistica del grande fiume, capace di catalizzare l’attenzione di tante famiglie che, non potendosi permettere week-end più trendy, si accontentavano di una gita in battello lungo il Grande Fiume. Certo che se Gargiulo scrivesse la sua canzone oggi di quelle gite rimarrebbe ben poco da raccontare, a maggior ragione dopo il disastro ambientale dello scorso mese di febbraio

quando 600 mila litri di petrolio si sono riversati da una vecchia raffineria dell’hinterland milanese nelle acque del fiume Lambro e poi in quelle del Po. Un disastro colposo secondo i magistrati che indagano, per ora, contro ignoti, un disastro che, stando anche alle valutazioni dei volontari di Legambiente che per giorni hanno affiancato gli uomini della Protezione Civile nel tentativo di arginare i danni, avrà ripercussioni gravissime per molti anni a venire su tutto l’ecosistema della zona attraversata dai due fiumi.
Fortunatamente, in tutta questa brutta storia, la prontezza e la competenza dei tecnici della Protezione Civile ha evitato che l’onda nera arrivasse fino al delta del Po e quindi in mare, riuscendo a bloccare praticamente tutto il petrolio all’altezza di Isola Serafini vicino Piacenza, risparmiando una zona in cui i danni all’ambiente avrebbero potuto essere veramente incalcolabili. Per un disastro ambientale assurto agli onori della cronaca nazionale e internazionale, però, ce ne sono migliaia che restano confinati nelle cronache più o meno nere della provincia italiana, più piccoli rispetto a quello padano ma non per questo meno gravi e allarmanti. È il caso, ad esempio, di quello accaduto la scorsa estate in un piccolo paese dell’Umbria, Stroncone, dove la notte del due luglio un incendio scoppiato in un capannone industriale e andato avanti per diverse ore, ha riversato
nell'ambiente circostante ingenti quantità di diossina, materiale altamente tossico e riconosciuto come cancerogeno certo dallo IARC, già tristemente famosa in Italia per l’incidente che negli anni settanta interessò l’azienda ICMESA di Seveso, nel milanese. Che la situazione fosse grave lo si era capito subito, quando le prime squadre di vigili del fuoco giunte sul posto
hanno individuato l’azienda Ecorecuperi come quella interessata dall’evento. L’azienda, infatti, recupera e ricicla i componenti in plastica delle automobili demolite ed il magazzino andato a fuoco era stipato da migliaia e migliaia di pezzi di plastica; il doppio di quelli consentiti per legge, come accerteranno i magistrati che per questo iscriveranno sul registro degli indagati l’amministratore dell’azienda. E tutto questo nonostante l’impianto antincendio non funzionasse perfettamente, come attestato da ripetute ispezioni avvenute anche il giorno prima dell’incendio stesso. Una situazione già grave di per sé, ma che assume toni grotteschi alla luce di quanto emerso dall’inchiesta della magistratura ternana che pochi giorni fa ha emesso alcune misure cautelari nei confronti del Sindaco del paese di Stroncone ma anche di un dirigente dell’ARPA Umbria e del presidente della Cassa di Risparmio di Terni. Ma perché misure cautelari per personaggi con ruoli tanto diversi tra loro e apparentemente estranei alla vicenda? Presto detto. Il presidente della Cassa di Risparmio avrebbe, secondo i
magistrati, effettuato pressioni sul dirigente Arpa per alterare i risultati delle analisi effettuate subito dopo il rogo, al
fine di permettere un restringimento della zona rossa considerata a rischio, provvedimento di competenza del Sindaco di Stroncone. In effetti, nei giorni immediatamente successivi, a molti erano parsi strani i confini che delimitavano la zona rossa a più alto rischio diossina che aveva un raggio di soli due chilometri con confini a dir poco bizzarri. Invece di partire dal punto del rogo e tracciare una circonferenza con raggio pari a due chilometri, la mappa disegnata dai tecnici comunali aveva tutta una serie di spigoli vivi, angoli ed un andamento a zig-zag che creava anche situazioni paradossali, con famiglie che avevano i propri orti divisi a metà: di là inquinato da diossina, di qua perfettamente pulito, l’insalata da buttare, i pomodori da mangiare.La realtà, sempre secondo i giudici, sarebbe quella di un presidente della Cassa di Risparmio impegnato a tener fuori dalla zona rossa l’agriturismo del figlio nonché i terreni di sua proprietà destinati, di lì a pochi giorni, ad essere venduti ad un imprenditore edile per una somma vicina ai quattro milioni di euro, con Sindaco e dirigente ARPA che avrebbero accolto le richieste allo stesso senza batter ciglio, pur consapevoli di mettere a rischio la salute di migliaia di persone ignare di quanto stava accadendo, “in spregio” come sostiene il GIP “del loro compito di tutela e salvaguardia della salute pubblica”. Per la cronaca, quella zona rossa che all’inizio di luglio era stata individuata in un raggio massimo di due km dall’epicentro dell’incendio, oggi, dopo otto mesi, è stata estesa fino ad otto chilometri, arrivando a comprendere buona parte della stessa città di Terni, con la conseguenza, lapalissiana, che per mesi migliaia di ignari cittadini hanno mangiato verdura, carne, frutta ma anche bevuto latte, tutto condito con una buona dose di diossina, e tutto questo senza che chi sapeva, e poteva prendere provvedimenti adeguati, muovesse un dito per impedirlo. Questa piccola, ma grave, storia di provincia dimostra, semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, pessima gestione dell’ambiente in Italia, testimoniata anche dalle recenti frane di intere montagne trascinate a valle da qualche pioggia più abbondante del solito dopo essere state selvaggiamente disboscate per far posto a case abusive poi sanate con uno dei tanti condoni che si sono susseguiti negli ultimi anni. Una situazione compromessa anche a causa della corruzione della classe politica italiana che ha chiuso non uno ma tutti e due gli occhi davanti agli scempi più orrendi e alle situazioni più drammatiche, come ad esempio la tragica situazione di Augusta e Priolo, in Sicilia, dove la raffineria Enichem, una delle più grandi d’Europa, ha inquinato e continua ad inquinare l’aria e l’acqua di tutto il comprensorio, con il risultato che nella zona i bimbi nati malformati sono il triplo della media nazionale mentre i decessi per cancro negli uomini di Augusta sono il 10% in più della media regionale, percentuale che sale al 2% se si prende in considerazione solo il cancro ai polmoni. Una citazione a parte merita poi la ditta Coemi che alla fine degli anni ’90 finì sotto la lente d’ingrandimento della procura di Siracusa perché nelle urine degli operai vennero trovate concentrazioni di mercurio molto al di sopra dei limiti consentiti dalla legge, ma anche perché tra i figli dei lavoratori stessi si registrarono molti casi di malformazioni congenite. Perché il caso della Coemi sarebbe diverso da altri casi analoghi registrati in Italia, vi chiederete? Beh, perché il titolare della Coemi non è un imprenditore qualsiasi. Il suo nome è Stefania Prestigiacomo; sì, avete capito bene, l’attuale Ministro dell’ambiente del governo Berlusconi.
La stessa che, pochi mesi dopo essersi insediata appoggiò la proposta dell’Ilva di Taranto che si opponeva ad una riduzione dei limiti di diossina immessi in atmosfera, nonostante questi fossero già otto volte maggiori di quelli consentiti in Friuli Venezia Giulia. Qualcuno si stupisce ancora?

(2010-2 pag 16)

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