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Categoria: Turismo
Pubblicato Mercoledì, 08 Dicembre 2010 13:42

La Germania che non ti aspetti

Un cuore tedesco in un corpo brasiliano

„Sì, viaggiare“, sang damals die italienische Pop-Ikone Lucio Battisti. Macht es Sinn, bis nach Brasilien zu fliegen, um Deutschland kennenzulernen? Sì, das macht es! Im Süden des südamerikanischen Riesen schlägt ein deutsches Herz: Wie und für wen, das erfahrt ihr in diesem Artikel!

Daniele Verri

Parlando di Brasile, i primi pensieri che vengono alla mente sono il sole, il carnevale, la samba, la bianche spiagge del nord, la pelle scura e lucente delle donne carioca dal corpo sinuoso ed invitante e dai sorrisi irresistibili, un dribbling festoso come solo i grandi campioni della Selecao sono in grado di fare. Pac, finta a destra e giocatore a sinistra, avversario beffato ed io, come un bambino di fronte alla televisione, estasiato dall’eleganza del gesto tecnico e che per poco non cado dalla sedia, ingannato da un movimento che nonostante le innumerevoli ore passate col pallone sui più brutti campetti di Germania ed Italia mai riuscirò a ripetere...

Beh, certo il Brasile è anche questo. Ma non solo. Con una superficie di oltre 8,5 milioni di chilometri quadrati, il gigante sudamericano è il quinto paese al mondo per dimensioni. Sottopopolato, se vogliamo, almeno secondo gli standard europei, ma pur sempre un mezzo continente. Circa il 15% dei 190 milioni di brasiliani vivono nei distretti di San Paolo e di Rio de Janeiro, dove viene prodotto oltre il 50% della ricchezza del Paese: sono questi i cuori pulsanti di una nuova potenza economica già da alcuni anni, assieme a Cina e India, ospite fissa al tavolo dei potenti della Terra. Ma il Brasile è di più, molto di più di tutto questo. È un’impresa penso impossibile descrivere in un tempo accettabile tutti i volti di un Paese che colpisce ogni visitatore col calore della sua gente e del suo sole così deciso, con l’infinità di tonalità di colore dei suoi paesaggi, con la bontà della sua cucina semplice, con la sensualità della sua dolce lingua musicale, con l’allegria che trasuda da tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche in modo così drammatico da quelli tragici di morte e povertà. E quindi non ci proveremo nemmeno, nella speranza che queste poche righe introduttive abbiano svegliato in voi la voglia di andarci. Rileggete attentamente l’ultima frase e poi andateci. Non ve ne pentirete, qualunque sia la destinazione prescelta e qualsiasi il vostro obiettivo. Anzi, lasciate a casa gli obiettivi e andateci e basta: li troverete strada facendo.C’era una volta, nel bel mezzo del Sud del Brasile, in uno Stato chiamato Santa Caterina, un paese incantato dal nome di Sao Joao do Oeste. In questo paese, nonostante la Germania si trovasse a 16.000 km di distanza, i bambini erano biondissimi, la gente parlava uno strano tedesco e tutti erano amici di tutti…

Davvero è necessario utilizzare la tipica formula introduttiva della fiaba per presentare un luogo incantato come Sao Joao, minuscolo punticino in quell’ultima protuberanza di terra incastonata tra Argentina, Paraguay e Uruguay che comprende tre dei ventisei Stati che compongono il Brasile: Il Paranà, il Rio Grande do Sul e Santa Caterina. Il nostro viaggio ci porta proprio in quest’ultimo, 700 km ad ovest della capitale Florianopolis, famosa per le sue spiagge bianche, altrettanto belle ma meno conosciute di quelle di Bahia o Maceió nel nord e quindi meta di un turismo prevalentemente nazionale; all’interno del Paese, a meno di 100 km dalla frontiera con l’Argentina, nel cuore di una regione che a partire dalla prima metà dell’Ottocento viene colonizzata da famiglie di contadini giunte dall’Europa alla ricerca di fortuna e di terra da lavorare. Incredibile la loro storia: ottenuta la concessione per un terreno, in barca risalgono il Rio Uruguay, uno di quegli enormi fiumi sudamericani che qui segna il confine con il Rio Grande do Sul e con l’Argentina prima di sfociare nell’omonimo Paese, attraccano al posto prestabilito e cominciano a disboscare e ad impiantare coltivi e fattorie. Con che fatica ve lo lascio immaginare: il clima è subtropicale, la vegetazione lussureggiante, la colonizzazione agli albori. Una vera epopea a cavallo tra due continenti. Le famiglie vengono dal Baden-Württemberg, dalla Baviera, alcune anche dall’Austria. Il clima favorevole all’agricoltura, i terreni fertili e la mancanza di prospettive in patria li convincono a rimanere. Dopo tanti anni, a causa della fondamentale mancanza di contatti e di mescolanza con altre razze, elemento tipico di altre regioni del Brasile (qui i neri tratti dall’Africa non sono mai arrivati) la comunità originale è rimasta intatta: sembra di stare in un qualche paesino delle alpi bavaresi.

È incredibile, uno schiaffo a tutte le nostre nozioni e fantasie di Brasile: dove sono finite le natiche rotonde e dorate incastonate in tanga miniinvasivi ammirate e desiderate in tante dirette televisive del Carnevale di Rio sulla defunta Telemontecarlo?

La popolazione parla ancora tedesco. Non è di certo quello di Goethe e nemmeno quello di Günther Grass: si tratta del vecchio dialetto parlato al momento di emigrare, nel corso del tempo imbastarditosi con numerose parole in portoghese, che è e rimane l’unica lingua ufficiale. Al posto di schön si dirà scheeeen con la e lunga e aperta, al posto di arbeiten si dirà schaffen, al posto di fünf si dirà feeeenf proprio come con scheeeen, ma fattoci l’orecchio ci si intende perfettamente. Il tedesco scritto sarebbe chiedere troppo, nonostante il grosso arco all’inizio della discesa che dalla strada principale tra San Miguel e Itapiranga porta giù a Sao Joao ci ricordi che ci troviamo di fronte al Municipio mais alfabetizado do Brasil, il comune più alfabetizzato del Brasile. Ma alfabetizzato in portoghese appunto, e non in tedesco. San Joao e la sua regione hanno qualcosa di magico perché racchiudono in sé gli aspetti migliori sia della Germania che del Brasile: la voglia di lavorare, la sicurezza e l’affidabilità dell’una e la voglia di stare assieme, la simpatia innata ed il calore dell’altro. E sarà proprio il calore ad accompagnarci ed a fare da filo conduttore alla scoperta di questo curioso angolo di mondo. La regione è tuttora a carattere fortemente rurale, la gente vive d’agricoltura e d’allevamento; nelle fattorie si allevano mucche, maiali e polli: è normale avere un po’ di terra. Numerosi sono gli aviàrios, edifici lunghi e bassi nei quali trovano posto decine di migliaia di frangos, che vi rimangono circa 45 giorni durante i quali da pulcini si trasformano in robusti esemplari di circa 3-4 kg di peso. Mi sono offerto di aiutare Lidor, la nostra guida alla scoperta del dorato mondo del pollame brasiliano, nelle operazioni di prelievo da parte dell’azienda che poi li preparerà e confezionerà per il mercato europeo, americano e arabo. I camion arrivano di notte, nelle ore più fresche. Da loro scendono frotte di carregadores vocianti, gli uomini addetti alla cattura: giù le cassette vuote dal camion, sei polli per cassetta e via di nuovo sul camion. E uno sul camion in piedi con la gomma dell’acqua, nel caso specifico io, troppo imbranato per gli altri lavori, a bagnare dall’alto i polli in modo che sopportino il calore che già di primo mattino fa la sua apparizione puntuale. Un concerto notturno di starnazzi, piume e urla, che conclude un periodo di lavoro molto intenso per gli avicoltori e che ne precede un altro esattamente uguale.

Numerosi anche gli allevamenti di suini, che vengono regolarmente riforniti di mangime dai camion cisterna che vediamo scorrazzare colorati sulle polverose strade della zona. Ogni giorno vengono caricate più volte tonnellate di mangime che vengono poi distribuite nei vari giri, come ci racconta Jerson, che questo mestiere lo fa da diversi anni e che con il suo bolide rosso ci consente di accompagnarlo a luoghi dal nome altisonante come Cristo Rei, Hervalsinho e Beato Roque. Si va e si consegna il mangime, scaricato attraverso un grosso tubo nei silos degli allevatori. Gli stessi sembrano soddisfatti, i loro maiali cantano pieni di aspettative e via che si riparte alla ricerca di nuovi grugni da sfamare.

Le mucche danno il latte, ma per farlo devono prima mangiare e poi essere anche munte. Entrambe le operazioni richiedono tempo ed impegno, come ci spiega Walter, proprietario di alcuni ettari di terreno dove le ultime rade case di Sao Joao segnano la fine del paese. Il mais, che qui si chiama milho, viene coltivato e raccolto per farne mangime per i bovini. Interi, enormi, rigogliosissimi e verdissimi campi di mais vengono triturati e raccolti in carri come l’uva durante la vendemmia: il loro contenuto viene vuotato tutto assieme in vere e proprie montagne, che vengono coperte con teli di plastica nera e terra in modo che né la pioggia né il sole possano danneggiare il prezioso mangime, nel corso dell’anno opportunamente razionato.

Passiamo un giorno con Jeane, la figlia di Walter, che cura la stalla di famiglia. Le mucche vengono fatte uscire dalla stalla al mattino, fatte pascolare di giorno e poi ricondotte alla stalla la sera. La mungitura avviene due volte al giorno, la mattina alle cinque e la sera alle sei, prima che arrivi il camion a prelevare il latte, con il quale vengono poi prodotti i latticini: l’industria casearia è fiorente e nel caso sulla vostra tavola doveste trovare i prodotti della ditta LacLelo, beh sappiate che per giungere a voi hanno ricoperto un tragitto non indifferente.

Oltre al latte sono altre due le bevande che qui spopolano: il cosiddetto chimarrao e la birra. Il primo è un tè di erbe che viene bevuto in compagnia in un’unica strana coppa di legno e pelle riempita per metà con una miscela di erbe tritate: vi si versa sopra acqua bollente, vi si infila di lato una specie di cannuccia di metallo schiacciata nella parte inferiore a forma di filtro, in modo che solo l’acqua ma non l’erba venga aspirata, e poi si beve da quella. Attenzione che brucia! Una volta finita l’acqua la coppa viene nuovamente riempita dall’immancabile bottiglia termica colorata e via che si passa il bicchiere al prossimo bevitore. Ammetto che ci va fatta un po’ la bocca e che bere acqua bollente a mezzogiorno con 40 gradi di temperatura (da consumarsi esclusivamente in veranda o all’ombra, astenersi perditempo) non sia tipico della nostra cultura e nemmeno di quella tedesca, ma è un’usanza alla quale ci si abitua in fretta, forse giocoforza: le famiglie lo bevono insieme la mattina prima di lavorare, a mezzogiorno prima di pranzo, dopo pranzo, la sera prima di cena, dopo cena, nei pomeriggi non lavorativi, se si effettua una gita la bottiglia termica non manca mai, insomma sempre quando non si fa qualcosa di specifico. In un paesino come Sao Joao dove non è che succedano cose incredibili, e dove quindi le cose fresche da raccontarsi non sono moltissime, è incredibile quanti argomenti la gente riesca a trattare nel corso di una giornata! Il chimarrao pare aiuti parecchio.

Una cosa che accomuna le due sponde dell’Atlantico è la passione sfrenata per la birra, rigorosamente bionda, fredda, mi raccomando la schiuma, un vero e lisir dopo il lavoro e nel weekend: difatti una birra viene chiamata uma gelada. La birra è più leggera che in Baviera e va giù come l’acqua. Simpatica è l’usanza di comprare una bottiglia che poi viene divisa fra tutti. Nessuno compra una birra solo per sé: finisce la mia ne compri una tu, e così via finché non si va a casa. Le bottiglie, per tenerle al fresco, vengono infilate in sgargianti contenitori di plastica o di polistirolo con la pubblicità delle varie marche. Certo che con la sete atavica che la gente del luogo si è portata dalla Germania, difficilmente una birra diventa calda… Una lotta all’ultimo sorso tra il sole e la sete, nella quale quest’ultima ha sempre la meglio. Ma come si fa a bere senza mangiare? Impossibile anche in Brasile. La birra chiama la carne alla griglia, della quale è compagna inseparabile. Se in Europa spopola il maiale in tutte le sue forme e variazioni, qui è la carne bovina a farla da padrone. E noi gliela lasciamo fare, perché un sapore del genere è assolutamente introvabile da noi. La gente alleva le proprie mucche nutrendole col mais dei propri campi, le porta fuori e dentro dalla stalla mattina e sera, le vede crescere e le cura di giorno in giorno. E poi se le mangia. Succulenti pezzettoni di carne vengono infilati in lunghi spiedi chiamati espetos, che a loro volta vengono inseriti nella churrasquera, la griglia in muratura immancabile in ogni abitazione. Sulla legna ardente (il carbone non serve, la legna abbonda dappertutto) la carne cuoce per circa un’ora, prima che il churrasquero, l’addetto alla griglia, estragga un espeto e lo porti di piatto in piatto: ogni commensale può cosi tagliare col proprio coltello la porzione desiderata direttamente dall’enorme pezzo fumante. Geniale come il sistema che chiameremo a bicicletta e che consente una perfetta cottura: tra il manico e l’inizio della lama ogni spiedo è dotato di una corona dentata che si inserisce in una catena azionata da un motorino elettrico. Scorrendo, la catena fa ruotare su se stessi gli spiedi e con loro la carne, che si cuoce uniformemente senza mai bruciarsi o seccarsi. Certo si mangia anche carne di maiale, oppure ottime salsicce che hanno poco dei würstel tedeschi e tanto delle care salsicce modenesi protagoniste di tante mie domeniche estive in gioventù, oppure carne di galletto ruspante così diversa da quella del pollo di allevamento della cui vita ingloriosa vi raccontavamo prima, ma nulla è così gustoso, così morbido, così saporito come la carne di gado, di bovino: ottima in tutte le sue espressioni, che sia la famosa picanha, il filetto senza un filo di grasso, lo speck, bello grasso, o le costinhas, le costolette, irresistibili, procaci, mendaci e anche fallaci, ultimo ed insuperabile scoglio ad ogni proposito di alimentazione vacanziera moderata. E come si fa? È come incontrare Heidi Klum inspiegabilmente ben disposta nei propri confronti ed invece andarsene a letto ripetendo “Avevo detto che questa sera sarei andato a letto presto…” Non esiste! Una tira l’altra! Anche perché praticamente non finiscono mai! In quanti siamo a pranzo? In dieci? Allora facciamo dieci chili di carne! Siamo in venti? Facciamone venti! Sempre conto pari! Ci metti un po’ d’insalata, di riso bianco, di torte dolci che vengono consumate con la carne a mo’ di pane, di cetrioli, d’insalata di patate, di pomodori, un freezer pieno di birra, un numero variabile di bocche voraci e stomaci capaci, una qualche bottiglia di refrì (le bibite per i più giovani) ed il gioco è fatto! Ah non dimentichiamoci dei palitos, gli stuzzicadenti, perché con tutta questa roba qualcosa ad intralciare il lavoro del nostro dentista rimarrà per forza.

Dopo una grande abbuffata del genere la digestione ha un ruolo vitale, nel senso che garantisce la sopravvivenza della specie. Il modo preferito dai brasiliani è giocare a calcio. Dimentichiamoci i vari Pelé, Ronaldinho e Robinho. I neri e i meticci sono qui davvero rari. Porto Alegre, con l’Internacional ed il Gremio a dividersi equamente i tifosi locali, che vengono chiamati colorados o gremistas a seconda della fede, è distante ben 600 km, e con lei il calcio che conta. Qui lo sport è solo locale, ma il livello medio è davvero niente male: la gente è in forma, le capacità tecniche innate e la voglia di divertirsi inesauribile. Il futbol in Brasile è gesto tecnico, ricerca del gol, bellezza estetica. Ci sono quattro o cinque bei campetti in giro per il paese sui quali è possibile giocare, più quello della società calcistica Alianca, con regolare settore giovanile, prima squadra e amatori.

Ed è proprio ad una partita dei seniores che assistiamo un pomeriggio dopo un ’abbuffata colossale. Beh, il passo non è più quello di una volta, la voglia di sfiancarsi sotto un sole implacabile e sull’erba così robusta rispetto a quella europea ci sarebbe anche, ma con lei gli anni. Il che riduce notevolmente il ritmo partita, ma i padri di famiglia col pallone tra i piedi ci sanno fare. Eleganti stop di petto, giocate di prima intenzione, finte di corpo, punizioni dalla traiettoria malandrina. La gara finisce con un rotondo 6-0 per i rossoneri locali. E sarà l’inizio di una serata indimenticabile. La partita è l’ultima di campionato e precede così la festa di fine stagione. I ragazzi sono carichi, forti dei sei gol e della voglia di stare assieme. E via che scatta il churrasco, il secondo della giornata! Temprato da alcuni giorni di duro allenamento il mio stomaco risponde presente ed è pronto a sfidare chiunque pensi che un italiano mangi solo pasta e pizza. Le condizioni climatiche giocano improvvisamente a mio favore: il caldo afoso del pomeriggio lascia il posto ad una brezzolina accattivante che stimola fame e sete. La legna arde da un pezzo, la carne è quasi pronta. Si attende solo il fischio d’inizio. E qui il Brasile mi conquista definitivamente con quella manifestazione del suo calore che nel corso di questo viaggio ci ha affascinato più di tutte le altre: quella della sua meravigliosa gente. A me, fotografo improvvisato di un pomeriggio calcistico, viene immediatamente regalata una maglietta della squadra che vale il titolo di membro ad honorem della società. Gli abbracci e le prese in giro, in portoghese ed in tedesco, si sprecano. Subito sono l’italiano, prototipo ultimo di amico europeo. Non appena capiscono che parlo tedesco la conversazione si fa ancora più intensa: tutti vogliono sapere tutto della Germania, Paese mai conosciuto, sempre sognato e perennemente nel cuore. Come si vive, come si lavora, come sono le città. Porto al tavolo dove sono stato costretto a sedere sei misere birre, come segno di gratitudine per la maglietta e per l’accoglienza fantastica: “E che non si dica che gli italiani non pagano da bere!” Non l’avessi mai detto. La mia frase goliardica e scherzosa si trasforma in un dolce boomerang: da quel momento per me non c’è più sosta. Un bicchiere di birra qua, un altro là, carne di mucca qui, costolette là, birra, carne, carne, birra, in un vortice calorico (tanto per stare in tema…) assolutamente inarrestabile. In una serata conosco praticamente la metà degli abitanti e non ce n’è uno che non mi offra qualcosa. E qui devo ringraziare il destino che dieci anni fa mi ha portato a Monaco, perché senza tutta la helles bevuta nell’ultimo decennio non ce l’avrei mai fatta ad uscire vivo da quella bolgia di pura allegria. Ecco, pura. Come i suoi protagonisti, gente semplice attaccata alla vita, quella di tutti i giorni, senza neurosi e senza distorsioni.

Il fatto che sia sopravvissuto ha avuto una certa importanza, oltre ch e per me in senso stretto. Con alcuni ragazzi conosciuti quella sera stiamo organizzando un gemellaggio tra una squadra di Monaco e l’Alianca, una sorta di Sao Joao on tour che nelle nostre speranze dovrebbe portare in un futuro non lontano diverse famiglie brasiliane a visitare quella che per loro è la patria lontana e mai dimenticata, anche se mai conosciuta.

Ai nostri amici lettori che al termine di questo articolo chiaramente di parte mantengano tuttora, come diceva Primo Levi, un salutare coefficiente di dubbio, non rimane che una cosa da fare: andarci e vedere di persona. Troveranno come noi la Germania che non ti aspetti.

Sao Joao, Brasile. Qui gli emigrati tedeschi hanno trovato la loro nuova patria.

(2010-2 pag 4)

 

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La Germania che non ti aspetti

 

Homo hominis lupus - anche in campagna

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„Sì, viaggiare“, sang damals die italienische Pop-Ikone Lucio Battisti. Macht es Sinn, bis nach Brasilien zu fliegen, um Deutschland kennenzulernen? Sì, das macht es! Im Süden des südamerikanischen Riesen schlägt ein deutsches Herz: Wie und für wen, das erfahrt ihr in diesem Artikel!

Daniele Verri

Parlando di Brasile, i primi pensieri che vengono alla mente sono il sole, il carnevale, la samba, la bianche spiagge del nord, la pelle scura e lucente delle donne carioca dal corpo sinuoso ed invitante e dai sorrisi irresistibili, un dribbling festoso come solo i grandi campioni della Selecao sono in grado di fare. Pac, finta a destra e giocatore a sinistra, avversario beffato ed io, come un bambino di fronte alla televisione, estasiato dall’eleganza del gesto tecnico e che per poco non cado dalla sedia, ingannato da un movimento che nonostante le innumerevoli ore passate col pallone sui più brutti campetti di Germania ed Italia mai riuscirò a ripetere...

Beh, certo il Brasile è anche questo. Ma non solo. Con una superficie di oltre 8,5 milioni di chilometri quadrati, il gigante sudamericano è il quinto paese al mondo per dimensioni. Sottopopolato, se vogliamo, almeno secondo gli standard europei, ma pur sempre un mezzo continente. Circa il 15% dei 190 milioni di brasiliani vivono nei distretti di San Paolo e di Rio de Janeiro, dove viene prodotto oltre il 50% della ricchezza del Paese: sono questi i cuori pulsanti di una nuova potenza economica già da alcuni anni, assieme a Cina e India, ospite fissa al tavolo dei potenti della Terra. Ma il Brasile è di più, molto di più di tutto questo. È un’impresa penso impossibile descrivere in un tempo accettabile tutti i volti di un Paese che colpisce ogni visitatore col calore della sua gente e del suo sole così deciso, con l’infinità di tonalità di colore dei suoi paesaggi, con la bontà della sua cucina semplice, con la sensualità della sua dolce lingua musicale, con l’allegria che trasuda da tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche in modo così drammatico da quelli tragici di morte e povertà. E quindi non ci proveremo nemmeno, nella speranza che queste poche righe introduttive abbiano svegliato in voi la voglia di andarci. Rileggete attentamente l’ultima frase e poi andateci. Non ve ne pentirete, qualunque sia la destinazione prescelta e qualsiasi il vostro obiettivo. Anzi, lasciate a casa gli obiettivi e andateci e basta: li troverete strada facendo.

C’era una volta, nel bel mezzo del Sud del Brasile, in uno Stato chiamato Santa Caterina, un paese incantato dal nome di Sao Joao do Oeste. In questo paese, nonostante la Germania si trovasse a 16.000 km di distanza, i bambini erano biondissimi, la gente parlava uno strano tedesco e tutti erano amici di tutti… Davvero è necessario utilizzare la tipica formula introduttiva della fiaba per presentare un luogo incantato come Sao Joao, minuscolo punticino in quell’ultima protuberanza di terra incastonata tra Argentina, Paraguay e Uruguay che comprende tre dei ventisei Stati che compongono il Brasile: Il Paranà, il Rio Grande do Sul e Santa Caterina. Il nostro viaggio ci porta proprio in quest’ultimo, 700 km ad ovest della capitale Florianopolis, famosa per le sue spiagge bianche, altrettanto belle ma meno conosciute di quelle di Bahia o Maceió nel nord e quindi meta di un turismo prevalentemente nazionale; all’interno del Paese, a meno di 100 km dalla frontiera con l’Argentina, nel cuore di una regione che a partire dalla prima metà dell’Ottocento viene colonizzata da famiglie di contadini giunte dall’Europa alla ricerca di fortuna e di terra da lavorare. Incredibile la loro storia: ottenuta la concessione per un terreno, in barca risalgono il Rio Uruguay, uno di quegli enormi fiumi sudamericani che qui segna il confine con il Rio Grande do Sul e con l’Argentina prima di sfociare nell’omonimo Paese, attraccano al posto prestabilito e cominciano a disboscare e ad impiantare coltivi e fattorie. Con che fatica ve lo lascio immaginare: il clima è subtropicale, la vegetazione lussureggiante, la colonizzazione agli albori. Una vera epopea a cavallo tra due continenti. Le famiglie vengono dal Baden-Württemberg, dalla Baviera, alcune anche dall’Austria. Il clima favorevole all’agricoltura, i terreni fertili e la mancanza di prospettive in patria li convincono a rimanere. Dopo tanti anni, a causa della fondamentale mancanza di contatti e di mescolanza con altre razze, elemento tipico di altre regioni del Brasile (qui i neri tratti dall’Africa non sono mai arrivati) la comunità originale è rimasta intatta: sembra di stare in un qualche paesino delle alpi bavaresi.

È incredibile, uno schiaffo a tutte le nostre nozioni e fantasie di Brasile: dove sono finite le natiche rotonde e dorate incastonate in tanga miniinvasivi ammirate e desiderate in tante dirette televisive del Carnevale di Rio sulla defunta Telemontecarlo?

La popolazione parla ancora tedesco. Non è di certo quello di Goethe e nemmeno quello di Günther Grass: si tratta del vecchio dialetto parlato al momento di emigrare, nel corso del tempo imbastarditosi con numerose parole in portoghese, che è e rimane l’unica lingua ufficiale. Al posto di schön si dirà scheeeen con la e lunga e aperta, al posto di arbeiten si dirà schaffen, al posto di fünf si dirà feeeenf proprio come con scheeeen, ma fattoci l’orecchio ci si intende perfettamente. Il tedesco scritto sarebbe chiedere troppo, nonostante il grosso arco all’inizio della discesa che dalla strada principale tra San Miguel e Itapiranga porta giù a Sao Joao ci ricordi che ci troviamo di fronte al Municipio mais alfabetizado do Brasil, il comune più alfabetizzato del Brasile. Ma alfabetizzato in portoghese appunto, e non in tedesco.

San Joao e la sua regione hanno qualcosa di magico perché racchiudono in sé gli aspetti migliori sia della Germania che del Brasile: la voglia di lavorare, la sicurezza e l’affidabilità dell’una e la voglia di stare assieme, la simpatia innata ed il calore dell’altro. E sarà proprio il calore ad accompagnarci ed a fare da filo conduttore alla scoperta di questo curioso angolo di mondo. La regione è tuttora a carattere fortemente rurale, la gente vive d’agricoltura e d’allevamento; nelle fattorie si allevano mucche, maiali e polli: è normale avere un po’ di terra. Numerosi sono gli aviàrios, edifici lunghi e bassi nei quali trovano posto decine di migliaia di frangos, che vi rimangono circa 45 giorni durante i quali da pulcini si trasformano in robusti esemplari di circa 3-4 kg di peso. Mi sono offerto di aiutare Lidor, la nostra guida alla scoperta del dorato mondo del pollame brasiliano, nelle operazioni di prelievo da parte dell’azienda che poi li preparerà e confezionerà per il mercato europeo, americano e arabo. I camion arrivano di notte, nelle ore più fresche. Da loro scendono frotte di carregadores vocianti, gli uomini addetti alla cattura: giù le cassette vuote dal camion, sei polli per cassetta e via di nuovo sul camion. E uno sul camion in piedi con la gomma dell’acqua, nel caso specifico io, troppo imbranato per gli altri lavori, a bagnare dall’alto i polli in modo che sopportino il calore che già di primo mattino fa la sua apparizione puntuale. Un concerto notturno di starnazzi, piume e urla, che conclude un periodo di lavoro molto intenso per gli avicoltori e che ne precede un altro esattamente uguale.

Numerosi anche gli allevamenti di suini, che vengono regolarmente riforniti di mangime dai camion cisterna che vediamo scorrazzare colorati sulle polverose strade della zona. Ogni giorno vengono caricate più volte tonnellate di mangime che vengono poi distribuite nei vari giri, come ci racconta Jerson, che questo mestiere lo fa da diversi anni e che con il suo bolide rosso ci consente di accompagnarlo a luoghi dal nome altisonante come Cristo Rei, Hervalsinho e Beato Roque. Si va e si consegna il mangime, scaricato attraverso un grosso tubo nei silos degli allevatori. Gli stessi sembrano soddisfatti, i loro maiali cantano pieni di aspettative e via che si riparte alla ricerca di nuovi grugni da sfamare.

Le mucche danno il latte, ma per farlo devono prima mangiare e poi essere anche munte. Entrambe le operazioni richiedono tempo ed impegno, come ci spiega Walter, proprietario di alcuni ettari di terreno dove le ultime rade case di Sao Joao segnano la fine del paese. Il mais, che qui si chiama milho, viene coltivato e raccolto per farne mangime per i bovini. Interi, enormi, rigogliosissimi e verdissimi campi di mais vengono triturati e raccolti in carri come l’uva durante la vendemmia: il loro contenuto viene vuotato tutto assieme in vere e proprie montagne, che vengono coperte con teli di plastica nera e terra in modo che né la pioggia né il sole possano danneggiare il prezioso mangime, nel corso dell’anno opportunamente razionato.

Passiamo un giorno con Jeane, la figlia di Walter, che cura la stalla di famiglia. Le mucche vengono fatte uscire dalla stalla al mattino, fatte pascolare di giorno e poi ricondotte alla stalla la sera. La mungitura avviene due volte al giorno, la mattina alle cinque e la sera alle sei, prima che arrivi il camion a prelevare il latte, con il quale vengono poi prodotti i latticini: l’industria casearia è fiorente e nel caso sulla vostra tavola doveste trovare i prodotti della ditta LacLelo, beh sappiate che per giungere a voi hanno ricoperto un tragitto non indifferente.

Oltre al latte sono altre due le bevande che qui spopolano: il cosiddetto chimarrao e la birra. Il primo è un tè di erbe che viene bevuto in compagnia in un’unica strana coppa di legno e pelle riempita per metà con una miscela di erbe tritate: vi si versa sopra acqua bollente, vi si infila di lato una specie di cannuccia di metallo schiacciata nella parte inferiore a forma di filtro, in modo che solo l’acqua ma non l’erba venga aspirata, e poi si beve da quella. Attenzione che brucia! Una volta finita l’acqua la coppa viene nuovamente riempita dall’immancabile bottiglia termica colorata e via che si passa il bicchiere al prossimo bevitore. Ammetto che ci va fatta un po’ la bocca e che bere acqua bollente a mezzogiorno con 40 gradi di temperatura (da consumarsi esclusivamente in veranda o all’ombra, astenersi perditempo) non sia tipico della nostra cultura e nemmeno di quella tedesca, ma è un’usanza alla quale ci si abitua in fretta, forse giocoforza: le famiglie lo bevono insieme la mattina prima di lavorare, a mezzogiorno prima di pranzo, dopo pranzo, la sera prima di cena, dopo cena, nei pomeriggi non lavorativi, se si effettua una gita la bottiglia termica non manca mai, insomma sempre quando non si fa qualcosa di specifico. In un paesino come Sao Joao dove non è che succedano cose incredibili, e dove quindi le cose fresche da raccontarsi non sono moltissime, è incredibile quanti argomenti la gente riesca a trattare nel corso di una giornata! Il chimarrao pare aiuti parecchio.

Una cosa che accomuna le due sponde dell’Atlantico è la passione sfrenata per la birra, rigorosamente bionda, fredda, mi raccomando la schiuma, un vero elisir dopo il lavoro e nel weekend: difatti una birra viene chiamata uma gelada. La birra è più leggera che in Baviera e va giù come l’acqua. Simpatica è l’usanza di comprare una bottiglia che poi viene divisa fra tutti. Nessuno compra una birra solo per sé: finisce la mia ne compri una tu, e così via finché non si va a casa. Le bottiglie, per tenerle al fresco, vengono infilate in sgargianti contenitori di plastica o di polistirolo con la pubblicità delle varie marche. Certo che con la sete atavica che la gente del luogo si è portata dalla Germania, difficilmente una birra diventa calda… Una lotta all’ultimo sorso tra il sole e la sete, nella quale quest’ultima ha sempre la meglio.

Ma come si fa a bere senza mangiare? Impossibile anche in Brasile. La birra chiama la carne alla griglia, della quale è compagna inseparabile. Se in Europa spopola il maiale in tutte le sue forme e variazioni, qui è la carne bovina a farla da padrone. E noi gliela lasciamo fare, perché un sapore del genere è assolutamente introvabile da noi. La gente alleva le proprie mucche nutrendole col mais dei propri campi, le porta fuori e dentro dalla stalla mattina e sera, le vede crescere e le cura di giorno in giorno. E poi se le mangia. Succulenti pezzettoni di carne vengono infilati in lunghi spiedi chiamati espetos, che a loro volta vengono inseriti nella churrasquera, la griglia in muratura immancabile in ogni abitazione. Sulla legna ardente (il carbone non serve, la legna abbonda dappertutto) la carne cuoce per circa un’ora, prima che il churrasquero, l’addetto alla griglia, estragga un espeto e lo porti di piatto in piatto: ogni commensale può cosi tagliare col proprio coltello la porzione desiderata direttamente dall’enorme pezzo fumante. Geniale come il sistema che chiameremo a bicicletta e che consente una perfetta cottura: tra il manico e l’inizio della lama ogni spiedo è dotato di una corona dentata che si inserisce in una catena azionata da un motorino elettrico. Scorrendo, la catena fa ruotare su se stessi gli spiedi e con loro la carne, che si cuoce uniformemente senza mai bruciarsi o seccarsi. Certo si mangia anche carne di maiale, oppure ottime salsicce che hanno poco dei würstel tedeschi e tanto delle care salsicce modenesi protagoniste di tante mie domeniche estive in gioventù, oppure carne di galletto ruspante così diversa da quella del pollo di allevamento della cui vita ingloriosa vi raccontavamo prima, ma nulla è così gustoso, così morbido, così saporito come la carne di gado, di bovino: ottima in tutte le sue espressioni, che sia la famosa picanha, il filetto senza un filo di grasso, lo speck, bello grasso, o le costinhas, le costolette, irresistibili, procaci, mendaci e anche fallaci, ultimo ed insuperabile scoglio ad ogni proposito di alimentazione vacanziera moderata. E come si fa? È come incontrare Heidi Klum inspiegabilmente ben disposta nei propri confronti ed invece andarsene a letto ripetendo “Avevo detto che questa sera sarei andato a letto presto…” Non esiste! Una tira l’altra! Anche perché praticamente non finiscono mai! In quanti siamo a pranzo? In dieci? Allora facciamo dieci chili di carne! Siamo in venti? Facciamone venti! Sempre conto pari! Ci metti un po’ d’insalata, di riso bianco, di torte dolci che vengono consumate con la carne a mo’ di pane, di cetrioli, d’insalata di patate, di pomodori, un freezer pieno di birra, un numero variabile di bocche voraci e stomaci capaci, una qualche bottiglia di refrì (le bibite per i più giovani) ed il gioco è fatto! Ah non dimentichiamoci dei palitos, gli stuzzicadenti, perché con tutta questa roba qualcosa ad intralciare il lavoro del nostro dentista rimarrà per forza.

Dopo una grande abbuffata del genere la digestione ha un ruolo vitale, nel senso che garantisce la sopravvivenza della specie. Il modo preferito dai brasiliani è giocare a calcio. Dimentichiamoci i vari Pelé, Ronaldinho e Robinho. I neri e i meticci sono qui davvero rari. Porto Alegre, con l’Internacional ed il Gremio a dividersi equamente i tifosi locali, che vengono chiamati colorados o gremistas a seconda della fede, è distante ben 600 km, e con lei il calcio che conta. Qui lo sport è solo locale, ma il livello medio è davvero niente male: la gente è in forma, le capacità tecniche innate e la voglia di divertirsi inesauribile. Il futbol in Brasile è gesto tecnico, ricerca del gol, bellezza estetica. Ci sono quattro o cinque bei campetti in giro per il paese sui quali è possibile giocare, più quello della società calcistica Alianca, con regolare settore giovanile, prima squadra e amatori.

Ed è proprio ad una partita dei seniores che assistiamo un pomeriggio dopo un’abbuffata colossale. Beh, il passo non è più quello di una volta, la voglia di sfiancarsi sotto un sole implacabile e sull’erba così robusta rispetto a quella europea ci sarebbe anche, ma con lei gli anni. Il che riduce notevolmente il ritmo partita, ma i padri di famiglia col pallone tra i piedi ci sanno fare. Eleganti stop di petto, giocate di prima intenzione, finte di corpo, punizioni dalla traiettoria malandrina. La gara finisce con un rotondo 6-0 per i rossoneri locali. E sarà l’inizio di una serata indimenticabile. La partita è l’ultima di campionato e precede così la festa di fine stagione. I ragazzi sono carichi, forti dei sei gol e della voglia di stare assieme. E via che scatta il churrasco, il secondo della giornata! Temprato da alcuni giorni di duro allenamento il mio stomaco risponde presente ed è pronto a sfidare chiunque pensi che un italiano mangi solo pasta e pizza. Le condizioni climatiche giocano improvvisamente a mio favore: il caldo afoso del pomeriggio lascia il posto ad una brezzolina accattivante che stimola fame e sete. La legna arde da un pezzo, la carne è quasi pronta. Si attende solo il fischio d’inizio.

E qui il Brasile mi conquista definitivamente con quella manifestazione del suo calore che nel corso di questo viaggio ci ha affascinato più di tutte le altre: quella della sua meravigliosa gente. A me, fotografo improvvisato di un pomeriggio calcistico, viene immediatamente regalata una maglietta della squadra che vale il titolo di membro ad honorem della società. Gli abbracci e le prese in giro, in portoghese ed in tedesco, si sprecano. Subito sono l’italiano, prototipo ultimo di amico europeo. Non appena capiscono che parlo tedesco la conversazione si fa ancora più intensa: tutti vogliono sapere tutto della Germania, Paese mai conosciuto, sempre sognato e perennemente nel cuore. Come si vive, come si lavora, come sono le città. Porto al tavolo dove sono stato costretto a sedere sei misere birre, come segno di gratitudine per la maglietta e per l’accoglienza fantastica: “E che non si dica che gli italiani non pagano da bere!” Non l’avessi mai detto. La mia frase goliardica e scherzosa si trasforma in un dolce boomerang: da quel momento per me non c’è più sosta. Un bicchiere di birra qua, un altro là, carne di mucca qui, costolette là, birra, carne, carne, birra, in un vortice calorico (tanto per stare in tema…) assolutamente inarrestabile. In una serata conosco praticamente la metà degli abitanti e non ce n’è uno che non mi offra qualcosa. E qui devo ringraziare il destino che dieci anni fa mi ha portato a Monaco, perché senza tutta la helles bevuta nell’ultimo decennio non ce l’avrei mai fatta ad uscire vivo da quella bolgia di pura allegria. Ecco, pura. Come i suoi protagonisti, gente semplice attaccata alla vita, quella di tutti i giorni, senza neurosi e senza distorsioni.

Il fatto che sia sopravvissuto ha avuto una certa importanza, oltre che per me in senso stretto. Con alcuni ragazzi conosciuti quella sera stiamo organizzando un gemellaggio tra una squadra di Monaco e l’Alianca, una sorta di Sao Joao on tour che nelle nostre speranze dovrebbe portare in un futuro non lontano diverse famiglie brasiliane a visitare quella che per loro è la patria lontana e mai dimenticata, anche se mai conosciuta.

Ai nostri amici lettori che al termine di questo articolo chiaramente di parte mantengano tuttora, come diceva Primo Levi, un salutare coefficiente di dubbio, non rimane che una cosa da fare: andarci e vedere di persona. Troveranno come noi la Germania che non ti aspetti.

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