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Buchi neri

Lettres italiennes

Corrado Conforti

Monaco, 15 luglio 2017.
“E qui comando io” cantava Gigliola Cinguetti negli anni '70. “A casa mia faccio quello che mi pare” sostengono in parecchi (dimenticando che la propria libertà, anche fra le quattro mura domestiche, non è infinita). “A casa mia io sono il Duce” sentii dire anni fa in tv da un energumeno ospitato in una di quelle tristi trasmissioni in cui le crisi di coppia diventavano spettacolo.

Già, il Duce, quell'ometto tarchiato, pelato, cinico, opportunista e pure vigliacco che per vent'anni ha tenuto in mano un intero Paese. Sul Duce il giudizio più preciso lo diede Benedetto Croce. Di Mussolini il filosofo abruzzese scrisse: “… perché l'uomo, nella sua realtà, era di corta intelligenza, correlativa alla sua radicale deficienza di sensibilità morale, ignorante, di quella ignoranza sostanziale che è nel non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di autocritica al pari che di scrupoli di coscienza, vanitosissimo, privo di ogni gusto in ogni sua parola e gesto, sempre tra il pacchiano e l'arrogante“. Eppure in Italia quest'uomo non solo ha fatto per due decenni il bello e il cattivo tempo, ma ancora oggi, nonostante la guerra disastrosa alla quale condusse il Paese, viene a volte invocato; e quel triste ventennio fatto di ridicole parate e di maschi atteggiamenti, viene ricordato (da chi peraltro non l'ha neanche vissuto, ché in caso contrario avrebbe almeno a sua giustificazione la nostalgia) come una sorta di età dell'oro. Colpa della scuola, dice non a torto qualcuno, rilevando come l'insegnamento della storia non trovi nei programmi scolastici lo spazio che meriterebbe. Colpa del quoziente d'intelligenza aggiungo io, riferendomi a quella „corta intelligenza“ di cui parla Croce. Ma colpa anche di una diffusa indulgenza verso certi atteggiamenti „nostalgici“, figlia di una superficialità ahimè tutta italica, figlia a sua volta di quel desiderio di autoassoluzione (molto cattolico permettetemi di aggiungere) che del fascismo non vuole vedere né la politica aggressiva né la componente razzista. Questa stolta tolleranza ha portato alla trasformazione di Predappio (paese natale di Mussolini) in un luogo di pellegrinaggio, dove si svolge ogni giorno un indecente commercio fatto di gadget raffiguranti il Duce e il suo austriaco compagno di merende criminali.

Fra Predappio e Chioggia corrono 140 km, distanza non eccessiva ma, almeno in altri tempi, culturalmente significativa: Predappio si trova nella rossa e anticlericale Romagna, Chioggia nel cattolicissimo veneto. Eppure da qualche anno qualcosa accomuna (ma speriamo di poter scrivere presto “ha accomunato”) il paesotto romagnolo alla cittadina veneta. Niente di bello purtroppo. Bensì di triste, di ridicolo, di squallido. Un tratto dell'arenile chioggiano è stato trasformato da un povero di spirito concessionario di uno stabilimento balneare, in una miserevole esposizione di fotografie del ventennio, accompagnate da frasi ad effetto, riprese dagli ampollosi discorsi mussoliniani o ricalcate su essi: una sordida serie di “me ne frego” e altre delizie del genere. Ovviamente il fatto non è passato inosservato. Qualcuno ha denunciato la cosa a La Repubblica (non ovviamente alle autorità preposte che di sicuro non avrebbero fatto niente, nonostante la legge punisca l'apologia di fascismo) e il giornale ha spedito là i suoi inviati. Chi ha avuto a che fare con qualche nostalgico del Ventennio può immaginare la reazione del titolare dello stabilimento: l'attempato balilla, petto in fuori e pancia in dentro come il Catenacci di Giorgio Bracardi, ha in sostanza ripetuto le frasi con le quali ho iniziato questo articolo; ma appena la magistratura ha cominciato a interessarsi del suo suq di cimeli littori ed è stata ventilata l'ipotesi di una revoca della concessione, il fegataccio ha seguito l'esempio dei suoi camerati di quel lontano luglio del 1943, i quali, saputo dell'arresto di Mussolini, si trasformarono in un solo giorno da lupi capitolini in mansueti agnellini, per ritrovare poi il coraggio e la conseguente arroganza dietro la protezione degli Sturmbataillone nazisti. “È stata una goliardata – ha detto – io non sono né di destra né di sinistra”. E ha perfino aggiunto, affinché il ridicolo virasse sul grottesco, “Io amo i gay e amo le lesbiche”, come quei poveretti che, costretti nel corso di un rinfresco di matrimonio a un discorso, non sapendo come concluderlo, gridano alla fine un “Evviva gli sposi!” liberatorio.

La storia finirebbe qui, ma c'è ovviamente una coda. Un certo movimento (guai a chiamarlo partito) che ogni giorno sonda, in quella cloaca che chiamano web, i peggiori umori degli italiani per poi farsene rappresentante, si è fatto paladino dell'apologia di fascismo chiamandola libertà di espressione. “Quanti voti può portare una scelta del genere?” devono essersi chiesti. Molti di certo. Ma a questo punto, invece di scegliersi come simbolo cinque stelle luminose, optino per quei vuoti spazio-tempo in cui le stelle scompaiono. Buchi neri si chiamano. Anche il colore va benissimo.

 

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