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Categoria: Turismo
Pubblicato Lunedì, 29 Novembre 2010 23:05

Andateci il prima possibile!

Suggerimenti per un viaggio in Sardegna diverso dai soliti itinerari balneari, ma non per questo, meno affascinante

Sulci, in Süd-West Sardinien, war früher bekannt für den Abbau von Mineralien. Heute bietet ein Besuch der ehemaligen Minenanlagen nicht nur einen Blick auf die Schönheit der Natur oder die einzigartige Geschichte durch die Nutzung der Bodenschätze durch den Menschen. Er offenbart auch einen Einblick in das Leben der Minenarbeiter: In der heutigen Zeit fast unvorstellbar und gezeichnet von Missbrauch und Ungerechtigkeit.…

Marco Armeni

 

 

(I parte)
Andateci prima che qualche miliardario americano, o anche nostrano (ma, rigorosamente, non sardo) ci metta le mani sopra, e lo trasformi in una lussuosa residenza per turisti facoltosi, ostentando vero buon gusto nella scelta dei materiali e del restauro conservativo (non mancheranno i soldi per reclutare architetti di grido), ma estromettendo, per sempre, l’uomo, e la sua (tanta, tantissima, bestiale) fatica.

Ed è, probabilmente, proprio nel loro triste ritorno a casa, sfiancati dalla fatica che rendeva le loro esistenze forse peggiori di quella delle capre che pascolano nei dintorni; è nel nodo scorsoio di un circolo vizioso che di fatto li riduceva, in perfetta legalità, a schiavi della miniera e dei loro proprietari, ai quali restituivano ogni mese, acquistando i generi di sussistenza nei loro empori, i magri stipendi ed anche di più, indebitandosi irrimediabilmente; è, dunque, in questa sorta di via crucis, senza neppure la speranza di una resurrezione, che matura un malcontento diffuso, sempre più ampio; e questo malcontento ha il consueto nome di “salario più dignitoso”, di “orario di lavoro più umano”.

 

Finché, un giorno il nome della Piccola Parigi dell’Iglesiente rimbalza tragicamente su tutti i giornali d’Italia: in una delle prime manifestazioni di protesta, le forze dell’ordine sparano, e tre persone rimangono per terra.
E il 4 settembre 1904 è diventato così il giorno dell’eccidio di Buggerru, e quelle tre sagome di pietra, distese su un piccolo prato, servono a ricordare anche oggi il sacrificio di tre minatori che, a prezzo della propria vita, e con l’ondata di proteste che la strage sollevò, contribuirono al riconoscimento di condizioni lavorative più consone ad un essere umano.

E mette molta tristezza pensare che siano passati più di cento anni, e tante altre vittime, epperò ancora oggi, nei campi di pomodori in Puglia e in Campania, nei cantieri edili di Roma e di Milano, parole come “sicurezza”, “orario lavorativo”, “salario giusto” risuonano come una bestemmia per i padroncini o i loro caporali, e una chimera per le moderne bestie da soma.

 

(II parte)
C’eravamo lasciati con le amare parole dedicate alla sempre attuale lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori; ebbene, scordiamo per un momento questo tema e, saltando in macchina, percorriamo la strada che da Buggerru porta verso Nebida e Masua.

Questa strada, molto suggestiva, ha avuto ed ha un’esistenza molto travagliata; oggi è completamente asfaltata, anche se capita talvolta che qualche piccolo masso di decine di tonnellate si stacchi dalle alture circostanti per testare la solidità del manto d’asfalto. Non è uno scherzo, la strada è totalmente carente in termini di sicurezza (con il consueto rimpallo di competenze tra Comuni coinvolti e Provincia), ed è anche piuttosto infida, rivelando pendenze assassine fino ad all’ultimo ben celate, con stridio di frizioni e freni d’auto. Mi è capitato di vedere tre camper, uno dietro l’altro, fermi a bordo strada, con contorno di autisti bestemmianti in bergamasco, relative famiglie sconsolate sotto il sole e, tutt’intorno, l’inconfondibile odore di pastiglie di freni bruciate… Ora, a parte la comicità involontaria di vecchi cartelli di chiusura al traffico, dimenticati lì da anni; a parte il capolavoro del surrealismo burocratico di una strada che, fino a circa dieci anni fa, era asfaltata per diversi chilometri nel tratto centrale, ma bianca e sconnessa all’inizio e alla fine (e giuro che non ne ho mai compreso il perché!), da Buggerru si arriva in pochi minuti all’incantevole fiordo di Cala Domestica dove, tra i ruderi di vecchi magazzini utilizzati per le attività complementari all’estrazione del minerale, il viaggiatore, che però non disdegna le spiagge, potrà avere ristoro scegliendo tra le due calette disposte a perpendicolo che conferiscono a questa località una configurazione molto particolare.
Rinfrescato il corpo e lo spirito, si continua in direzione di Nebida e Masua, da dove si può godere, in particolare dal be
lvedere di Nebida, di un tramonto sul mare per il quale anche chi scrive ha speso una lacrimuccia…Visto che siamo da queste parti poi, cogliamo l’occasione per una visita a Porto Flavia, un altro di quei progetti in cui la funzionalità si coniuga con il genio di ardite soluzioni ingegneristiche e il buon gusto architettonico.

Attraversato l’abitato di Masua, dove tra l’altro si trova anche un’esposizione all’aperto delle macchine da miniera e, particolare che non guasta mai, una deliziosa caletta, ci si inerpica per giungere all’ingresso del sito denominato, appunto, Porto Flavia.Anche in questo caso, così come la galleria Henry, di cui ho parlato nell’articolo precedente, non ci troviamo di fronte ad una miniera, ma ad una serie di scavi realizzati per consentire un più agevole trasporto del minerale estratto. L’origine del nome è presto spiegata: Flavia era il nome della primogenita del progettista, l’ing. Cesare Vecelli, che nel 1924 ideò questo “porto” per consentire, attraverso un ingegnoso sistema di nastri trasportatori e bracci mobili, di caricare direttamente la stiva delle navi, alla fonda in un punto in cui il pescaggio, pur in assenza di una infrastruttura portuale vera e propria, garantiva l’attracco in sicurezza di imbarcazioni di stazza pari a diverse centinaia di tonnellate.
Questo risultato venne raggiunto attraverso un sistema di due gallerie sovrapposte, scavate nella montagna per circa 600 metri, che consentivano di portare alla bocca del tunnel, che si apre scenograficamente in una parete di roccia a picco sul mare, i materiali estratti dalle miniere circostanti e lì convogliati tramite un sistema di vagoncini, le cui rotaie sono ancora in alcuni tratti visibili, come piccole cicatrici sui fianchi delle colline.Questa mia descrizione, che non rende giustizia all’ingegnosità della soluzione, ma soprattutto al buon gusto con cui queste strutture vennero realizzate, non deve però nascondere l’altra faccia della medaglia. Come in tutte le nuove soluzioni tecnologiche, anche questa portò il vivo sconforto, se non la disoccupazione vera e propria, ad un’intera categoria di lavoratori, ovvero i “galanze” carlofortini che, con la vela e con i remi delle loro piccole bilancelle di portata massima pari a circa trenta tonnellate, avevano assicurato fino ad allora, il trasporto del minerale alle grandi navi ancorate nel porto di Carloforte, nell’Isola di San Pietro.Non c’era confronto: in pochi giorni si effettuava un carico completo, direttamente in loco, anziché doverlo frazionare per trasportarlo ad un porto comunque distante. Anche loro, dunque, furono vittime del progresso tecnologico che, comunque, non ha impedito un declino rapido ed inesorabile. Porto Flavia ha funzionato infatti solo fino agli inizi degli anni Sessanta, quando la perdita di competitività dell’attività estrattiva suggerì la completa dismissione dei siti minerari e, di conseguenza, dell’intera struttura del “porto”, divenuta completamente inutile.

È un po’ la sorte che accomuna quasi tutti i siti minerari della Sardegna, con una coincidenza di date, sia nell’ascesa che nel declino, sia nella riscoperta come patrimonio di archeologia industriale che è ora oggetto di studio interdisciplinare assai interessante, coinvolgendo non solo l’economia di scambio, ma anche le vicende politiche dello Stato Italiano, a partire dalla fine dell’Ottocento, attraverso il Fascismo e il Dopoguerra, fino alla crisi post-Boom Economico, all’assistenzialismo di Stato e ai fasti-nefasti della Cassa del Mezzogiorno.
Quante miniere, e quante altre aziende, sono state mantenute artificialmente in vita nonostante la totale mancanza di
convenienza economica al solo fine di calmierare il mercato del lavoro e portare sollievo agli indici percentuali di disoccupazione!Ecco perché reputo interessante, soprattutto in quest’ottica, concludere questo breve excursus sull’attività estrattive nel Sulcis nella miniera di Serbariu, una delle “cattedrali” della autarchia energetica mussoliniana, trasformata, nel novembre del 2006, nel “Centro italiano della cultura del carbone”, primo tassello di un progetto complesso e costoso, che, si spera, non sarà altrettanto velleitario.Alla miniera di carbone di Serbariu si giunge, proseguendo il nostro itinerario, lasciando Nebida ed immettendosi nella S.S. 126, direzione Carbonia; dopo circa 25 km, proprio alle porte di Carbonia stessa, adeguate segnalazioni portano all’ingresso di un’area enorme ed anche un po’ desolata, dove tante belle idee aspettano di trasformarsi in realtà. Qui da pochi mesi è in funzione il museo del carbone, con una parte espositiva veramente interessante, dislocata nella “lampisteria”, enorme capannone di impostazione razionalista, con ampio uso di vetro e cemento armato che, a suo tempo, costituiva la sala dove i minatori indossavano gli abiti da lavoro e ritiravano la lampada (di qui il nome della costruzione) prima di recarsi nel sottosuolo.

Ai tempi del suo massimo fulgore, poco prima della Seconda Guerra Mondiale e in coincidenza con la fondazione della città di Carbonia nel 1938, nella miniera lavoravano fino a settemila persone. Questo spiega, almeno in parte, la straordinaria ampiezza delle volumetrie, anche se la struttura fu concepita volutamente spaziosa non solo per l’effettiva funzionalità, ma anche, e soprattutto, in chiave ideologica, per regalare il senso dell’aria aperta e degli spazi su cui stendere lo sguardo dopo otto-dieci ore di lavoro in cunicoli bui ed angusti.La parte più interessante però, seppur vivamente sconsigliata a chi soffre di claustrofobia, è la discesa, attraverso il pozzo,
in galleria: un enorme reticolo, solo parzialmente sfruttato, si distende nel sottosuolo ed ora i visitatori camminano, alla luce fioca delle lampade, proprio sui percorsi accidentati dove i minatori lavoravano.Qui ci troviamo di fronte ad una miniera vera e propria, e la guida, nel corso della lunga passeggiata, ci descrive l’evoluzione delle tecniche di coltivazione del carbone (che, alle nostre orecchie, suonano tutte estremamente pericolose per chi ci lavorava), fino alla tappa finale, rappresentata da un enorme mostro meccanico che sembra partorito dalla fantasia di qualche fumettista giapponese, e che costituisce il meglio che la tecnologia offre ai giorni nostri per l’estrazione del carbone.La “tagliatrice” di Serbariu è comunque ormai in pensione.

La miniera ha chiuso i battenti all’inizio degli anni Settanta, anche in questo caso per ragioni di scarsa competitività con prodotti analoghi, provenienti da altri mercati; eppure… eppure… a pochi chilometri di distanza, a Nuraxi Figus per la precisione, una gemella di questa macchina tagliatrice ha ripreso a triturare il fronte per estrarre ed inviare il carbone - 400.000 tonnellate annue - alla centrale termoelettrica di Portovesme.
Restano forti i dubbi. Certo, è un posto di lavoro per quattrocento minatori e, in una zona flagellata dalla disoccupazione, si tratta di un’opportunità a cui non si può rinunciare a cuor leggero. Tra gli abitanti della zona industriale di Portovesme, e il vicino paese di Portoscuso, però le statistiche rivelano percentuali preoccupanti di patologie tumorali. Ed ancora, cosa rende nel 2007 competitiva quella stessa attività estrattiva che, nel corso degli anni Ottanta, era stata definitivamente condannata a morte, con la chiusura pressoché totale delle miniere ancora in attività?

La visita è terminata, usciamo di nuovo all’aria aperta e, respirando a pieni polmoni, per un momento contempliamo le fotografie di uomini e donne in posa, dentro la galleria, coperti di fuliggine, ma quasi sempre sorridenti.
Così, mentre lo sguardo, in un colpo solo, abbraccia il passato, in foggia dei possenti argani ormai arrugginiti dei pozzi, insieme al presente e al futuro incerto delle ciminiere della zona industriale di Portovesme, mi sia consentito di dedicare al sorriso dei minatori le parole di questo articolo, con cui spero di non avervi tediato troppo. E poi, visto che il sole è ancora alto, c’è sempre qualche bellissima spiaggia da visitare, nei dintorni… A si biri mellus, allora!

(2006-4 pg 9 e 2007-1 pag 11)

 

(III parte)
Prima che ve ne andiate, augurandomi efficaci cure psichiatriche, vi dirò di cosa sto parlando.
C’è un’ampia zona della Sardegna, che copre pressoché tutto il Sulcis-Iglesiente, e si estende lungo la costa sud-occidentale fino al golfo di Oristano, la cui storia, da sempre, ma, particolarmente dal XIX secolo, è stata caratterizzata dallo sfruttamento delle miniere e, ovviamente, anche degli uomini che dentro ci lavoravano.
È la storia di luoghi, di paesi, di cittadine che l’uomo ha creato dal nulla, lottando contro la Natura, infliggendole ferite profonde, subendone anche le rabbiose vendette, per poi, finito il tempo della “corsa all’oro”, abbandonarli progressivamente; e la Natura, laddove ha potuto, si è rifatta avanti, distruggendo, divorando o ammantando di verde quei luoghi dove fino a circa cinquanta anni fa la vita, o una sottospecie di essa, si svolgeva con gli stessi ritmi delle bestie da soma.
Questi luoghi, suggestivi come i loro nomi, si chiamano Nebida, Naracauli, Ingurtosu, Monti Agruxiau, Pitzinurri; talvolta frutto di un preciso progetto urbanistico, come Carbonia e i suoi quarantamila abitanti trapiantati dal “Continente” a cercar fortuna, oggi si confrontano con la decadenza, con lo spopolamento, ma anche con le mire, certamente non ispirate dai più alti principi della filantropia, di importanti società immobiliari, scatenate dal recente progetto della Regione Sardegna di alienare alcune di queste “perle”, sconosciute e decadute, dopo (può sembrare paradossale ma, purtroppo, lo è solo in parte) aver provveduto però, a proprie spese, alla costosa messa in sicurezza delle zone stesse.
Dove sta il paradosso? Sta nel fatto che, considerata l’enorme estensione e l’estrema pericolosità dei siti da bonificare, c’è il concreto rischio di dover spendere somme ben più alte di quelle che si dovrebbero poi incassare dall’alienazione degli stessi.
A questo non trascurabile aspetto si deve poi aggiungere la lamentela delle numerose associazioni ambientaliste, e non solo, che si chiedono se questo progetto non affossi definitivamente lo sviluppo del Parco Geominerario, costituito nel 2001 dalla Regione Sardegna, sotto la tutela dell’Unesco, al fine di accelerare la riconversione in chiave turistica, e quindi stimolare lo sviluppo economico e sociale, delle aree minerarie dimesse, ma costretto ad una grama esistenza dalla penuria dei finanziamenti.
Contribuisce a rendere meno chiare le idee, in termini di distinzione dei ruoli tra buoni e cattivi, il fatto che la vendita di questi siti, che talvolta si affacciano sul principale gioiello della Sardegna, ovvero il mare e le sue spiagge, sia stata proposta proprio dalla giunta del presidente della Regione, Renato Soru, cui va sinceramente riconosciuto il coraggio di scelte anche impopolari a tutela del patrimonio costiero, come quello della massiccia estensione della fascia di inedificabilità (il cosiddetto “decreto salvacoste”), o come l’introduzione dell’imposta sulle seconde case e sugli yacht per coloro che non risiedono in Sardegna.
Insomma, ci sono tutti gli elementi perché la vicenda si aggrovigli in una matassa inestricabile, e per questo, nel frattempo, vi rinnovo l’invito, il più caldo possibile: andateci!
Finché ancora si percepisce l’odore, il sapore e la vista della fatica dell’uomo, che lotta con la Natura per strappare il minerale dalle viscere della terra, una Natura terribile, che però sa inebriare con il profumo del mirto o del lentischio, con il colore turchese del mare, con il bianco delle falesie abitate dai gabbiani.
Se ne avete voglia, iniziamo la nostra visita.
E allora partiamo, iniziando la nostra ideale gita da uno dei capoluoghi della neocostituita provincia di Carbonia-Iglesias, per la quale non si fa fatica ad immaginare una vita di stenti, caratterizzata dal sempiterno dubbio: “ma a che cosa servo?”. Ma Iglesias è cittadina dalle solide radici storiche, centro importante fin dal XIII secolo, sede vescovile e, con i suoi 30.000 abitanti, comunque uno dei dieci maggiori centri della Sardegna. Pur meritando una visita più dettagliata, e senza disconoscerne l’importanza di centro direzionale di gran parte delle attività estrattive del sud-Sardegna, la consideriamo, per ora, solo come punto di avvio, e, puntando la prua in direzione Fluminimaggiore, iniziamo a percorrere la statale 126, tortuosa e ricca di vegetazione (quella sopravvissuta alle mani criminali dei piromani). Dopo aver attraversato la frazione di San Benedetto, scollinando a quota a 594 metri s.l.m., la strada costeggia il tempio di Antas e le grotte di Su Mannau, e corre accanto a vecchi insediamenti dai nomi remoti e quasi dimenticati (Grugua, Baueddu), dove veniamo a scoprire che tra le varie case padronali in rovina vi era anche quella della famiglia di Amedeo Modigliani (il cui padre è ricordato da queste parti come gran tagliatore di foreste, piuttosto che come genitore di cotanto genio). Un po’ provati dalle curve, si giunge al paese di Fluminimaggiore, il cui isolamento e le cui favorevoli condizioni microclimatiche (riparo dai venti, relativa abbondanza d’acqua, notevole esposizione solare), non si sa quanto veritieramente, gli avevano attribuito in passato il fantasioso titolo di capoluogo sardo della produzione, illegale ovviamente, di canapa indiana.
Senza aver tempo per verificare la fondatezza di questa leggenda, puntiamo finalmente verso il mare, per arrivare all’immensa spiaggia di Portixeddu, alla cui fine si erge l’abitato di Buggerru.
Pomposamente denominata, ai tempi d’oro dell’attività estrattiva, la “Piccola Parigi” (non si sa con quanto involontario umorismo), Buggerru oggi non arriva ai 1.500 abitanti, meno di un terzo di quelli che la popolavano nella sua presunta età aurea (tale, probabilmente, solo per proprietari e direttori della “Societè des mines de Malfidano” di Parigi, concessionari delle miniere), ed è un paradigma del paradiso terrestre mancato: circondata da alte scogliere, dotata di una lunghissima spiaggia di sabbia fine, è però perseguitata dalle forze della Natura, a cui, talvolta, danno manforte la sciatteria e la stupidità dell’uomo.
Esposta, senza protezione, ai venti da maestro (e, per questo motivo, apprezzato luogo di esibizione della tribù dei surfisti), ha soffocato le vestigia della “Piccola Parigi” con un’ edilizia disordinata, povera di idee e materiali, riuscendo in questo modo a sminuire l’incantevole posizione su cui i suoi primi abitanti l’avevano adagiata.
E poi c’è la questione del porto: unica località, per parecchi chilometri sul versante sud-occidentale, a meritare la denominazione di paese, si intestardisce da anni nella costruzione di un piccolo porto che, inevitabilmente e, parrebbe, con altrettanto sistematica tenacia, le correnti marine ingolfano di sabbia, riducendo drasticamente il pescaggio e rendendolo idoneo solo all’attracco di gommoni e piccole barche.
Questa eterna fatica di Sisifo ha avuto, come piacevole effetto collaterale, la nascita e il progressivo consolidarsi di un vero e proprio arenile sotto il paese, come se la sabbia, che si cerca di eliminare dall’ingresso del porto, andasse poi a ripascere naturalmente questa giovane spiaggia; e sarebbe anche una vicenda romantica, se non fosse che quest’opera viene finanziata ogni anno con soldi pubblici. Va beh, consideriamola una sorta di eterogenesi dei fini….
Giusto sopra l’abitato di Buggerru, a 50 metri s.l.m., vi è l’ingresso della Galleria Henry, raggiungibile attraverso un’agevole salita direttamente dal centro del paese; come gli altri siti presenti nella zona, anche questo è gestito dalla Igea s.p.a., società a capitale pubblico, che, oltre che delle visite, si occupa del coordinamento delle attività di messa in sicurezza dei siti, con l’impiego di molti ex minatori, tra i quali anche coloro che normalmente svolgono il ruolo di guida (o di Caronte) attraverso queste passeggiate nelle viscere della Terra.
Certo, a volte la grammatica è quella che è, e scordatevi la versione in inglese o altra lingua straniera (anche se perlomeno nei pannelli sarebbe auspicabile), ma, rispetto ad una normale guida, i concetti vengono espressi da chi, anche se in forma attenuata rispetto al passato, quelle fatiche, paure, odori e polvere le ha vissute e respirate davvero.
Quindi niente pelli lisce e dizione anestetizzata, ma un forte accento sardo e mani e volti solcati dalle rughe dell’età e della fatica.
Nel rimandare al sito internet www.igeaminiere.it i dettagli circa le modalità di prenotazione, e le ulteriori informazioni, voglio ricordare che la Galleria prende il nome dall’allora direttore della miniera, cui si deve il sostanziale impulso ad effettuare il traforo del colle sopra l’abitato di Buggerru, per collegare, attraverso un avveniristico (era il 1892) sistema di rotaie a scartamento ridotto, le laverie del minerale con i luoghi di estrazione (la miniera, a cielo aperto, di Planu Sartu, posta in cima all’omonimo altipiano), rendendo più agevole e rapido il trasporto del materiale estratto.
A bordo di questo trenino, fedele riproduzione di quello operante a suo tempo, si percorre il tunnel, leggermente inclinato (0,5%), che si snoda nella parte restaurata per circa un chilometro, fino a terminare su uno spiazzo dove, riattando i vecchi fabbricati tecnico-logistici presenti, si vorrebbe aprire una struttura di ristoro, a picco sulle falesia e con vista mozzafiato sull’intera baia.
Scattate le foto di rito, si torna a piedi verso l’ingresso, utilizzando i camminamenti tracciati a ridosso della roccia, a strapiombo sul mare, di cui i minatori stessi si servivano, nonostante fossero stretti e malfermi (ma oggi sono stati interamente messi in sicurezza), piuttosto che camminare al buio e nell’aria greve del tunnel, per tornare verso le loro abitazioni.

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