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"Cesare deve morire" dei fratelli Taviani

Il grande cinema italiano d'autore a Monaco di Baviera

Elena Ritossa

Bayreuth, 15 gennaio 2013.
Dopo aver convinto la giuria della 62esima edizione del festival di Berlino, aggiudicandosi il prestigioso Leone d’oro, il capolavoro dei fratelli Taviani approda ora anche nelle sale cinematografiche di Monaco.  

Quasi riecheggiando il filone pirandelliano del teatro nel teatro, i registi ricostruiscono la messinscena della tragedia di Shakespeare da parte di un gruppo di detenuti nel carcere di Rebibbia, guidati abilmente dal regista Fabio Cavalli. Tutte le scene sono state girate all’interno dell’istituto penitenziario.

La macchina da presa segue fedelmente gli angusti itinerari dei protagonisti: dalle sale da prova mal arrangiate alle squallide celle, passando attraverso i labirintici corridoi a cielo aperto.

Ad interrompere questo ritmo claustrofobico solo una manciata di riprese esterne, su cui si innestano, con grande intensità, i pensieri dei carcerati - oscillanti tra le imponenti battute shakespeariane e la struggente desolazione della loro condizione.

Una fusione di voci che ricorda il Cielo sopra Berlino di Wenders: ma su Rebibbia non vegliano gli angeli, ognuno scruta solo il soffitto sopra di sé.

Il livello della pura finzione scenica e quello della cruda realtà si fondono abilmente: le passioni, gli ardori, i tradimenti che prendono forma nel dramma shakespeariano rievocano il vissuto, a volte tragico, dei protagonisti. Intensi paralleli ripercorrono l’intero film: nell’invocazione di libertà del popolo romano, personificato dai detenuti che tendono le braccia oltre le sbarre, è difficile non sentire riecheggiare un’invocazione autentica e drammatica. Il teatro, per i carcerati, non è un’ostentata pratica accademica, né soltanto un’occasione di riscatto dalla loro condizione: esso diventa tutt’uno con il loro vissuto, si fa carne e sangue. Non solo ci mettono dentro tutti loro stessi, ma vi si ritrovano.
I registi sospendono il giudizio, riuscendo a non scadere nella facile retorica e lasciando allo spettatore il compito di riflettere sui destini di questi uomini, così spesso, se non proprio demonizzati, almeno ignorati da tanta parte dell’opinione pubblica.

Il tema risulta estremamente attuale, se si pensa che, proprio di recente, tre grandi giornalisti italiani (Veronesi, Travaglio e Saviano) si sono confrontati in modo acceso sul tema del ruolo rieducativo della pena detentiva. Il film, come dicevamo, si limita a presentare una realtà complessa da un altro punto di vista, finora per lo più ignorato, e condurre con ciò lo spettatore a riflettere, compito che caratterizza il grande cinema impegnato.

 

 

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