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Beat Wyss, Rinascimento come tecnica culturale

Giuseppe Muscardini

Ferrara, 11 gennaio 2014
L'idea di una rivisitazione delle immagini stereotipate della nostra società, ha indotto Beat Wyss, docente di storia dell'arte e filosofia dei Media presso la Hochschule für Gestaltung (Scuola superiore per la formazione, ndr) di Karlsruhe, a soffermarsi su un'affascinante teoria: molte delle icone che caratterizzano la nostra cultura visiva arrivano da molto lontano e spesso sono riciclate. La teoria è stata sviluppata da Wyss nel suo lungo percorso di studioso: dalla prima pubblicazione uscita a Monaco di Baviera nel 1985 dai torchi tipografici di Matthes & Seitz, a Renaissance als Kulturtechnik (Rinascimento come tecnica culturale ndr), edita un mese fa ad Amburgo nella collana Fundus per Philo Fine Arts.

L’avant-propos che presiede alle pagine dense dell'ultima fatica di Beat Wyss, è dettato da riflessioni e considerazioni niente affatto casuali. La temperie culturale che attorno alle ricerche iconologiche ha stimolato mirate investigazioni sul reimpiego e la riconversione delle immagini quando si fanno icona, ha prodotto negli ultimi decenni risultati straordinari. La nuova edizione riveduta e ampliata de La parola dipinta di Padre Giovanni Pozzi, dimostra come la materia necessiti di continui approfondimenti, ferme restando le motivazioni che sono alla base dell’indagine.

Gli studi recenti di Beat Wyss evidenziano come nella nostra società alcuni meccanismi culturali preposti alla trasmissione delle idee rimettano in circolo più o meno volontariamente immagini riciclate, in una sorta di prolungamento storico delle stesse che avviene nel rispetto della teoria freudiana della totemizzazione. La fortuna delle più diffuse icone del nostro tempo, dalle serigrafie di Marylin Monroe di Andy Warhol all’orinatoio di Marcel Duchamp, dalla svastica nazista alle gambe esili e lunghissime dell’Homme qui marche di Alberto Giacometti, fino alla ritrita rappresentazione dei simboli usati per le diverse edizioni delle Olimpiadi, sono il risultato di una convalida messa in atto da una cultura visiva che ha necessità di recuperare sul piano estetico raffigurazioni simili facendole apparire nuove. Per comprendere le modalità con cui si perfezionano questi meccanismi, in grado di produrre icone molto vicine sul piano visivo ad oggetti di culto, dobbiamo necessariamente affidarci ai fatti e ai luoghi all’interno dei quali la comparazione fra passato e presente riesce più agevole. Le chiese e in genere gli edifici che ispirano il senso del sacro rappresentano un privilegiato terreno di indagine.

Oltre alle accreditate analisi di Erwin Panofsky, Aby Warburg, Emile Mâle, Ernst Gombrich, Hans Belting e Anthony Cutler, confluite nella più nota bibliografia sull’argomento, studi circostanziati sul rapporto fra testo e immagine condotti negli ultimi venti anni attorno alla dimensione del sacro si devono a Carla Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino, Einaudi, 2010, e a François Boesflug, Le immagini di Dio. Una storia dell’Eterno nell’arte. Torino, Einaudi, 2012. Ma anche immagini per così dire laiche producono effetti visivi di grande impatto, specie in relazione all'evolversi del loro significato. Ed è qui che si inserisce il documentato studio di Wyss, giunto in porto editoriale dopo lunghe ricerche e ultimo di una serie di pubblicazioni sull'argomento iniziate negli anni Ottanta. Nato a Basilea nel 1947 ma residente a Berlino, già docente a Zurigo presso lo Schweizerische Institut für Kunstwissenschaft e cultore della materia in diverse Università europee e americane, Wyss è attualmente docente di Storia dell'arte e filosofia dei Media presso la Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe (Scuola superiore per la formazione). Ha iniziato la propria esperienza editoriale a Monaco di Baviera, pubblicando nel 1985 con la casa editrice Matthes & Seitz un significativo volume sull'importanza dell'applicazione delle tecniche culturali nel mondo contemporaneo, dal titolo Trauer der Vollendung. Zur Geburt der Kulturkritik (Lutto della perfezione. Sulla nascita della critica della cultura, ndr).

Da allora la sua attività di studioso è proseguita con successo e le sue approfondite ricerche sono confluite nella recente pubblicazione, edita un mese fa ad Amburgo da Philo Fine Arts, dal titolo Renaissance als Kulturtechnik. Suggestivi i riferimenti culturali presi in esame da Wyss a proposito degli stereotipi figurativi italiani: dalla Lupa Capitolina, facsimile medievale di un celebre bronzo d'epoca latina, sfruttata in ogni secolo per veicolare diversi messaggi ideologici (oggi è anche icona della squadra di calcio Roma SA e la ritroviamo spesso tatuata su parti del corpo dei tifosi), alla celebre Chimera di Arezzo di presunta fattura etrusca conservata al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Ma l'analisi di Wyss si focalizza anche su simboli ed icone più recenti, come le pubblicità della Coca-Cola o della celebre Zuppa Campbell, che tanto interesse destano in chi si sforza da tempo di comprovare, con il supporto dell'arte, la presenza di un'interiorizzazione di quei simboli nella sfera emotiva dei contemporanei.

La storia della cultura, sembra dirci con chiarezza Wyss, necessita di semplici forme di sviluppo che facciano comprendere come certi simboli si riconvertano nel tempo per un fatto naturale e quasi scontato, tenendo conto di una sedimentazione di immagini precedenti su cui l’icona si ricostruisce. Un esempio chiarificatore a questo proposito è quello relativo al celebre Rituale del serpente di Aby Warburg, che Wyss tratta nel dettagliato capitolo intitolato Tigersprung und Schlangentanz (Salto della tigre e danza del serpente, ndr). Il celebre storico dell'arte, studioso delle immagini simboliche nelle culture arcaiche, soggiornò tra il 1921 e il 1924 a Kreuzlingen nella clinica Bellevue di Ludwig Binswanger, nel tentativo di guarire dalle forme psicotiche e ossessive da cui era invaso. Ne uscì nell'agosto del 1924, dopo aver tenuto una pubblica conferenza, dimostrando così di aver varcato la soglia della guarigione. Alla conferenza, a cui parteciparono i pazienti della clinica, diede il titolo de Il rituale del serpente, prendendo spunto da una precedente esperienza di viaggio nell'America del Nord tra il 1896 e il 1897, intrapresa per documentare le abitudini rituali degli indiani Pueblo nel Nuovo Messico. In quell'occasione Warburg aveva raccolto un centinaio di immagini significative, proiettate nel gennaio e nel marzo 1897 nel corso di due interventi ad Amburgo e a Berlino, intitolati rispettivamente Eine Reise durch das Gebiet der Pueblo-Indianer in Neu-Mexico e Bilder aus dem Leben der Pueblo-Indianer in Nordamerika ("Un viaggio attraverso i territori degli indiani Pueblo nel Nuovo Messico“ e “Immagini della vita degli indiani Pueblo nel Nordamerica“). Il materiale fotografico divenne prezioso: i rituali primitivi, le danze tribali, le imitazioni degli animali nel corso delle cerimonie all'interno di comunità non progredite, rientravano pienamente nella persuasione che il corpo detenesse un ruolo primario per la realizzazione di sé. In particolare Aby Warburg puntò su certe usanze degli indiani Moki, osservate con interesse durante il viaggio del 1896, che consistevano nel danzare per unirsi simbolicamente con i serpenti. Animale pericoloso per eccellenza, insidioso ed imprevedibile nell'immaginario collettivo, il serpente veniva in qualche maniera “addomesticato” con procedure di purificazione e di immersione in acqua, e successivamente lanciato su riquadri di sabbia dove erano raffigurati fulmini a forma di serpente. Con la danza e con questo rituale, gli indiani invocavano così le divinità perché inviassero una scrosciante pioggia accompagnata da fulmini, e in periodo di siccità il serpente era il magico collegamento tra cielo e terra per soddisfare la corale richiesta. La paura del serpente, che accompagna ogni civiltà ed ogni cultura del presente e del passato, veniva così mitigata dall'unione simbolica fra l'uomo e l'animale. Il serpente non è solo rappresentazione del male sulla terra, concezione introdotta dal biblico pomo offerto a Eva nell'Eden, oltre che strumento di vendetta preferito dagli dei, ma è anche il segno di una possibile rinascita vista sia sotto l'aspetto della periodica muta della pelle, sia in funzione dell'abilità di nascondersi mimetizzandosi nel sottosuolo per poi affiorare rapidamente. Da qui l’associazione tra l’immagine del caduceo (un bastone su cui sono attorcigliati due serpenti, simbolo della medicina e dell’Ordine dei farmacisti) e la possibile guarigione offerta dalle scienze mediche. Su queste stesse basi Wyss conduce coerentemente la propria disquisizione per farla approdare a una provocatoria e ironica affermazione: ogni epoca ha le immagini che si merita. Ma oltre che per i contenuti e i temi sapientemente trattati, la recente pubblicazione di Wyss, dotata peraltro di una splendida veste grafica, si caratterizza per lo stile brillante ed efficace.

 

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