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Utzon e l'opera "incompiuta"

Soddisfazioni e delusioni incontrate dall'architetto danese durante la costruzione del teatro più famoso d'Australia

Wer ist nicht fasziniert von „Fallingwater“, dem pittoresken Haus am Wasserfall inmitten des Grüns von Pennsylvania. Einem der berühmtesten amerikanischen Privathäuser, erschaffen von Architekt Frank Lloyd Wright. Oder vom Opera House in Sydney, der überwältigende Bau, der die „australische Metropole“ symbolisiert? Träume auf der Schulbank wurden während zweier begeisternder Reisen wahr: Die Atmosphäre zu atmen, die an diesen beiden magischen Orten herrscht.

Sasha Deiana

Due sono sempre state le opere architettoniche che hanno stuzzicato la mia fantasia mentre sfogliavo, incantato, i testi scolastici di storia dell’arte durante i miei primi anni di studio: Fallingwater, la pittoresca casa immersa nel verde della Pennsylvania (Bear Run), edificata letteralmente sopra un corso d’acqua (disegnata e realizzata tra il 1936 e il 1939 dall’americano Frank Lloyd Wright) e l’Opera House di Sydney, teatro la cui realizzazione tanto fece discutere tra gli anni ’50 e ’70 durante la sua creazione.


Mai avrei nemmeno sperato che a distanza di circa vent’anni la sorte mi avrebbe portato a visitarle entrambe. Ebbene nel 2003, durante un bizzarro viaggio nell’area nord-orientale degli Stati Uniti, concretizzai la prima delle mie fantasie, visitando gli interni della stravagante e innovativa “Casa Kauffmann” (nome del proprietario), cui tanto ero debitore per avermi distratto durante le tediose ed interminabili ore di insegnamento di fine trimestre.


Nel maggio di quest’anno, invece, quando le speranze erano ormai perse, il fato mi ha offerto un’opportunità cui non avrei mai potuto rinunciare: visitare la lontanissima Sydney e di conseguenza le aree turistiche che la caratterizzano (tra cui naturalmente l’Opera House).

Mi è apparsa per la prima volta immersa nell’oscurità del Sydney Harbour, circondata da decine di luci che le creavano un’aura surreale sullo sfondo, enfatizzata dal tenue riflesso delle acque circostanti.


La struttura, seppur incredibilmente originale, mi è parsa poco chiara e indefinita anche dal vero: gli edifici che la compongono hanno una caratteristica forma a “vela” o “conchiglia rovesciata” tanto che la costruzione sembra quasi veleggiare sulle acque del porto australiano.

La tridimensionalità, contrariamente a quanto avrei immaginato, non la rende più facile da interpretare: l’impatto visivo che ho avuto è stato lo stesso di quando la osservavo incuriosito e sognante tra le pagine del mio preziosissimo sussidiario (pagine a cui naturalmente non si arrivava mai, poiché, come diceva la nostra insegnante: quegli argomenti non facevano parte del programma, il che li rendeva quasi proibiti e di conseguenza ancora più affascinanti).

Sicuramente la prospettiva esterna più suggestiva la si ha durante il tramonto o nelle ore notturne dallo storico quartiere operaio nominato The Rocks, area in cui originariamente alloggiavano i deportati, facilmente raggiungibile dalle arterie principali della città: George, Pitt e Macquarie Street.


Osservando dalla scalinata centrale è evidente che l’Opera House è composta da 3 edifici: l’Opera Theatre, allestito al completo sotto le “vele” della parte orientale, la Concert hall, nelle “vele” a ovest, e l’apprezzatissimo Bennelong Restaurant situato sul lato sud che dà verso la città. Seppur il risultato sia unico e di rara bellezza, la costruzione dell’edificio non fu certo di facile realizzazione o priva di intoppi sia burocratici che tecnici. Per semplicità il progetto fu diviso in 3 parti distinte: il Podio (1958-1963), le volte che formano il tetto (1963-1967) e gli interni (1967-1973).

La prima fase ebbe inizio il 5 dicembre del 1958 e fu monitorata da Ove Arup, ingegnere britannico allora noto come esperto di costruzioni a forma di guscio. Il 23 gennaio del 1961 si registrava un ritardo, rispetto ai progetti prestabiliti, di ben 47 settimane: questo a causa di una serie di difficoltà inaspettate tra cui il tempo poco clemente e diversi problemi di tipo contrattuale. Il Podio fu comunque ultimato il 31 agosto del ‘62, purtroppo però le colonne portanti non erano abbastanza resistenti per supportare la struttura delle volte sovrastanti: qualche tempo dopo fu necessario riedificarle.


Indubbiamente la parte più complessa da realizzare fu il tetto, ossia le volte a forma di conchiglia che caratterizzano la particolare struttura. A cantiere aperto la soluzione definitiva per realizzare le enormi conchiglie della "quinta facciata", come la chiamava Utzon (architetto danese incaricato della realizzazione del progetto), si lasciò attendere invano per quattro lunghi anni. Gli esperti ingegneri non riuscivano a risolvere il complicato rompicapo: tutte le ipotesi di definizione delle geometrie dei gusci non davano i risultati sperati e non c’era modo di conciliare rispetto del progetto, esigenze statiche e tecniche costruttive. Lo staff dello studio londinese, alla fine degli inutili tentativi, aveva lasciato sul campo ben 375.000 ore di lavoro. Nella metà del 1961 il giovane e discusso Jørn Utzon giunse ad una soluzione: le conchiglie dovevano essere semplicemente considerate come le sezioni di una sfera virtuale di raggio definito. Con questa idea fu possibile variare la lunghezza e la forma degli archi che andavano a formare la volta in base alle esigenze desiderate dal disegnatore. L’architetto danese, da cui molti diffidavano, riuscì a sbloccare la difficile situazione, ma questo non fu sufficiente per migliorare la propria posizione agli occhi del governo vigente, turbato dalle spese che continuavano a lievitare.


La terza fase, quella relativa agli interni, non fu certo più fortunata delle altre. Ebbe inizio quando Utzon trasferì definitivamente il proprio ufficio a Sydney, nel febbraio del 1963.

Nel ‘65 il nuovo governatore Robert Askin passò il progetto sotto la giurisdizione del Ministero dei Lavori Pubblici, in quel periodo l’ammontare del denaro utilizzato era pari a 22,9 milioni di dollari americani, meno di un quarto di quella che fu la spesa finale dell’opera.

La sala principale era disegnata per contenere al suo interno un massimo di duemila posti a sedere, ne furono installati quasi mille in più: la cosa portò naturalmente disastrose conseguenze per l’acustica interna. Di lì a poco il giovane architetto, ideatore della particolare struttura a forma di guscio, decise di dimettersi perché costretto a fronteggiare le continue pressioni da parte di ingegneri, costruttori e governi che guardavano con timore il crescente aumento dei costi, cedendo il testimone a Peter Hall, David Littlemore e Lionel Todd. Pur essendo venuto a mancare solo un anno fa, Jørn Utzon, non ebbe mai la possibilità di vedere il suo lavoro ultimato.


Un importante fatto di cronaca caratterizzò, inoltre, il periodo di costruzione del teatro più famoso d’Australia: dopo la presentazione del progetto furono raccolti fondi per le spese a breve termine attraverso una lotteria (il primo premio era di 160.000 dollari americani). Graeme Thorne, il figlio di otto anni di uno dei vincitori, fu rapito dopo che la notizia delle fortune della sua famiglia fu resa pubblica. Scomparso il 7 luglio, fu ritrovato, assassinato, il 16 agosto 1960, a riscatto pagato.


L’Opera House di Sydney è forse una delle opere architettoniche con la storia più turbolenta e travagliata del secolo scorso. Doveva essere costruita in non più di quattro anni e la spesa massima non doveva superare i sette milioni di dollari: l’inaugurazione invece avvenne solo nel 1973 (quasi 15 anni dopo, dalla regina Elisabetta II) con un esborso di ben 102 milioni di dollari, il suo padre fondatore non ebbe mai la possibilità di vederla ultimata e un giovane innocente perse la vita senza motivo. Una storia travagliata e per certi versi anche tragica ma che sicuramente intensifica, non di poco, le emozioni provate da chi si trova per la prima volta ad osservare uno dei più affascinanti e significativi capolavori architettonici del XX secolo.

(2009-3 pg 23)

 



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