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La sindrome cinese

Le esportazioni da Pechino mandano in crisi il settore tessile europeo

China exportiert günstige Textilprodukte – vor allem Unterwäsche – in die ganze Welt. Die Verbraucher sind begeistert und die EU sucht Schutzmaßnahmen.

Pino Mencaroni

La Cina è vicina! Uno slogan caro ai baby boomers del ’68 e gridato a squarciagola sotto giganteschi ritratti del presidente Mao-Tse-Tung. Manifestazioni che assomigliavano alle processioni religiose con la blasfema differenza di un comunista al posto del santo. E giù a sventolare i libretti rossi con i pensieri di Mao, il nuovo vangelo. Oggi, a Shenzen, quaranta
minuti da Hong Kong, nella provincia cinese del Guandong, il libretto rosso lo trovi al supermarket, c’è anche la versione in inglese. Basta pagare un euro e ti compri il sogno della generazione che fu.

Se il comunismo è ai saldi, anche i miti del capitalismo non sfuggono alla regola. Sempre a Shenzen, le Timberland si trovano a 20 euro, per scarpe senza brand si spende anche di meno. Per non parlare di gonne e pantaloni. Tutto questo ben di Dio, si sa, attraversa gli oceani e arriva sui mercati dell’Occidente. Ma nessuno si aspettava questo film. Quando i grandi del mondo sfilavano nella Città Proibita, lo facevano nella recondita speranza di mettere le mani sul più vasto mercato del pianeta. Insomma, per i desideri dell’Occidente, la Cina doveva solo consumare. E lo fa, il problema è che produce molto ed esporta ancora di più. Basti pensare al settore tessile e all’underwear. In Europa, nei primi 6 mesi del 2005, gli arrivi di t-shirt sono
aumentati di oltre il 1000%.

Stessa musica per i reggiseno, bene quelli di pizzo e seta, ma addirittuta a ruba i modelli push-up.
Forse sul push-up i cinesi godono anche di un vantaggio non solo economico ma anche antropomorfo. Le donne dagli occhi a mandorla hanno seni meno prosperosi delle cugine occidentali, per cui se un push-up funziona in Cina, immaginatevi in Germania. Un vero shock erogeno. Molto meno erotico l’effetto sui produttori europei con i magazzini pieni di reggiseno invenduti. Stessa musica per chi fa i pantaloni o le camicie. Così sono partite le proteste con tanto di cortei a Bruxelles sotto la sede della UE e l’Europa ha deciso, al pari degli Usa, di limitare le importazioni di prodotti tessili e intimo femminile dalla Cina. Si tratta di una decisione temporanea che resterà in vigore sino al 2008, ma che difficilmente fermerà il fenomeno, al massimo servirà a rendere più graduale la chiusura di numerose aziende europee del settore. Chiuso un fronte, se ne aprono molti altri. Tocca ai calzaturieri, anche loro in marcia su Bruxelles, per chiedere uno stop alla scarpe "made in China”.

Solo in Italia sono in giococirca 500 mila posti di lavoro, qualche centinaio di migliaia anche in Spagna. Qui, lo scorso anno, alcuni negozi di calzature cinesi sono stati dati alle fiamme, ma i roghi, si sa, fanno sempre parte delle pagine nere della storia. L’ultimo allarme dall’agricoltura: si teme l’arrivo di milioni di teste d’aglio targate Pechino. Ma si teme anche per le zucchine e, in prospettiva, per il vino. Per non parlare delle auto, specialmente le city car: se dovessero essere in regola con le norme UE, potrebbero essere vendute a 5 mila euro, full optional. Chi ci guadagna da questa rivoluzione? Forse i consumatori. Nessuno
di loro protesta e i politici dell’Eurozona si guardano bene dal nominarli. Moltissimi cittadini europei appaiono soddisfatti di poter acquistare scarpe e pantaloni cinesi che costano il 30% in meno. In fondo stanno solo recuperando quello che si è mangiato il caro-euro. Poco europeisti?
Forse, ma i latini, già prima di Cristo, dicevano che pecunia non olet (il denaro non ha odore), figuriamoci la nazionalità dei prodotti ai tempi della globalizzazione.

(2005-3 pag 10)

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