Dettagli

Gestualità

Lettres italiennes

Corrado Conforti

Monaco, 21 dicembre 2013
Nel lontano 1832 il canonico procidano Andrea de Jorio pubblicava a Napoli un ponderoso volume dal titolo accattivante La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, nel quale, con piglio scientifico, analizzava la già allora celebrata gestualità partenopea. Il testo era corredato da incisioni che raffiguravano alcuni dei gesti descritti, una buona parte dei quali è sopravvissuta, mentre un'altra, come accade anche alle parole e ai modi di dire, è stata progressivamente espunta da quella che gli esperti definiscono “comunicazione non verbale”, oppure è rimasta limitata ad alcune aeree geografiche, senza diffondersi sull'intero territorio nazionale.

L'estate scorsa il New York Times ha dedicato un articolo e addirittura un video (giustamente perché è difficile presentare i gesti soltanto attraverso dei disegni o delle fotografie) alla gestualità italiana, azzardando, attraverso le opinioni di due esperti, Isabella Poggi, psicologa all'università di Roma Tre e Adam Kenton, direttore della rivista Gesture, due ipotesi sull'origine dei gesti degli italiani. Per la cronaca: la Poggi ritiene che essi siano figli della necessità di comunicare con quegli occupanti stranieri che nei secoli si sono avvicendati nel Belpaese, mentre Kenton è dell'opinione che in città sovrappopolate come Napoli i gesti siano nati dal bisogno di attirare su di sé quell'attenzione che, nel rumore generale, il solo uso della voce non poteva assicurare.

Qualunque sia la loro origine, è certo che i gesti si apprendono insieme alla lingua madre e che chi li usa (a meno che non si tratti di gesti plateali o sconvenienti), lo fa spesso senza rendersene conto. Chi mi legge si sarà certamente accorto quanto forzato, teatrale e a volte addirittura fastidioso, risulti l'uso di certi gesti tipicamente italiani da parte degli stranieri. Esiste evidentemente una sorta di “pronuncia” gestuale che, per quanto accurata, non sarà mai perfetta. Aggiungerò che, per un motivo che non so spiegarmi se non immaginando un congenito e primitivo senso di appartenenza al branco, riesco a perdonare con simpatia a uno straniero una pronuncia o una costruzione sbagliata, ma non un gesto esagerato o fuori luogo. Il gesto più della lingua rinvia evidentemente a un sentimento di appartenenza che si vuole esclusiva e che dunque non accetta intrusi né intrusioni.

Considerando tanta esperienza della comunicazione gestuale, avrei scommesso che il linguaggio dei sordomuti fosse stato inventato da un italiano. Ho scoperto invece, con un certo disappunto, non solo che il primo ad aver elaborato un tale linguaggio è stato un abate francese, tale Charles-Michel de l'Épée vissuto fra il 1712 e il 1789, ma che della lingua da lui inventata esistono diverse versioni nazionali, delle quali quella italiana è solo una variante. Un sordomuto italiano e uno inglese che si incontrassero, avrebbero dunque bisogno di un interprete (e io mi  immagino già lo spettacolo), a meno che, ovviamente uno dei due non fosse, per così dire, bilingue.

Un sordomuto italiano che abbia assistito ai recenti funerali di Nelson Mandela non avrebbe dunque capito niente dei gesti che un certo Thamsanqa Jantjie in piedi sul palco delle autorità compiva contemporaneamente al discorso dell'oratore di turno. Il bello è che quei gesti non li hanno capiti neanche i sordomuti sudafricani, dal momento che Thamsanqa Jantjie non è un interprete, ma un povero squilibrato capitato non si sa come sulla tribuna d'onore, e che si è limitato a scimmiottare quei movimenti che aveva certamente visto, senza capirli, in qualche telegiornale.

Eppure il poveretto potrebbe lavorare, proprio in qualità di interprete del linguaggio dei segni, nella nostra sfortunata Patria, traducendo i discorsi che un noto pregiudicato ultrasettantenne rivolge quasi quotidianamente, nonostante una condanna per frode fiscale, all'intero popolo italiano. Basterebbe a Thamsanqa conoscere un unico gesto, quello che si compie ponendo il palmo della mano sinistra tra il bicipite e l'avambraccio destro e sollevando quest'ultimo; gesto conosciuto in Italia come quello “dell'ombrello”. Per vent'anni infatti il detto pregiudicato, infarcendo il suo sgangherato italiano di immagini banali e spesso oscene, nient'altro ha presentato al paese che dice di amare se non il suo personale tornaconto, procacciato a svantaggio della collettività.

Un altro gesto dovrebbe poi imparare Thamsanqa, per rivolgerlo a quel verboso tribuno, lo stesso gesto che chi scrive imparò trent'anni fa frequentando gente poco raccomandabile: la mano destra aperta e con le dita divaricate a coprire il viso, in modo da alludere alle sbarre di una cella, quella in cui il sottoscritto, insieme ad altri milioni di italiani vorrebbe, magari per un giorno solo, vedere il suddetto frodatore fiscale. Perché c'è un solo posto dove dovrebbe finire chi si arricchisce sottraendo risorse a un paese per giunta impoverito: non agli arresti domiciliari, né in un'istituzione benefica, ma nella cella di un istituto penitenziario, in altre parole: in galera.

Joomla Plugin
   
Cookies make it easier for us to provide you with our services. With the usage of our services you permit us to use cookies.
More information Ok Decline