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La lingua del bail in

Lettres italiennes

Corrado Conforti

Monaco, 24 gennaio 2016.
A Roma il crollo di una parte di un edificio sul lungotevere Flaminio ripreso dalle telecamere e “postato”, come si dice col consueto anglicismo, sul sito di La Repubblica ha avviato l'altrettanto consueto dibattito. Uno dei partecipanti al forum si è risentito perché le immagini, mostrando un armadio sventrato, ne rivelavano il contenuto: cravatte e (forse) giacche avvolte in sacchi di plastica. “Che è 'sta roba? - ha commentato - La privacy non esiste più? Hanno già subito una disgrazia, chi vuole fare il voyeur può andare sotto il palazzo, ma un video che spia dentro casa, no, proprio non si sopporta”.

La reazione sdegnata ne ha ovviamente provocate altre più o meno sdrammatizzanti, giacché in effetti lo spettacolo di alcune cravatte non pare così irriguardoso della privacy altrui, tanto più che sia queste, sia le giacche si scelgono anche al fine di esibirle. 

Il fatto è però che quel concetto (la privacy) per il quale in italiano non mancherebbero i sostantivi (privatezza, riservatezza, intimità) da un buon quarto di secolo si esprime con un termine inglese, e, proprio in conseguenza di questa scelta, ha assunto un significato che travalica quello puramente semantico per indossare una veste che ne fa, non più una semplice parola, ma un feticcio, vale a dire, come spiega il dizionario Treccani, un “oggetto inanimato al quale viene attribuito un potere magico o spirituale”; “sacrale” aggiungo io. Sì perché chiamare una cosa non col suo nome abituale, ma con un nome nuovo precipitato da una dimensione estranea a quella consueta (in questo caso la provenienza geografica), arricchisce tale cosa di significati e echi particolari.

E siccome una parola esiste solo se pronunciata (o scritta) da qualcuno e dunque a qualcuno appartiene, ecco che quel qualcuno presume di arricchirsi, adoperandola, del contenuto di raffinatezza e originalità che tale parola contiene. È questa una pratica vecchia come il mondo e non sempre negativa, visto che alcune parole sono state e sono effettivamente portatrici di concetti nuovi, e che le lingue si arricchiscono proprio accogliendo in continuazione nuovi termini.

E però, così come ogni oggetto può essere usato bene o male, anche le parole possono essere impiegate, non per semplificare la comunicazione, ma per complicarla, oltre che come elementi finalizzati a una sorta di onanismo linguistico (è appunto il caso del termine “privacy”) autoappagante e, ahimè, deviante.
Il signore che nel suddetto forum si è scandalizzato per il mancato rispetto della privacy, si sarebbe scandalizzato molto di meno (ne sono sicurissimo) se lo sciagurato sostantivo non fosse mai stato introdotto nella nostra lingua. È il termine inglese che gli ha offerto il destro per lo sdegno esibito, perché privacy a causa della sua esoticità appartiene a una specie di iperuranio semantico che reclama in chi lo usa una posa particolare, sentendosi costui di appartenere, impiegandolo, a una sorta di casta, quella appunto dei difensori della privacy e dei partigiani del politicamente corretto. Si tratta di una colossale mistificazione che purtroppo ha preso piede e che non solo segnala una spaventosa crisi culturale, ma anche un tentativo canagliesco, poiché in Italia non c'è azione che non riveli anche un'intenzione che potremmo definire “magliara”, volendo far riferimento a quei venditori di tessuti di pessima qualità che nel dopoguerra giravano porta a porta per piazzare le loro pezze spacciandole per lane inglesi e a cui nel 1959 Francesco Rosi ha dedicato un magnifico film.

Proprio in questi giorni a proposito dei recenti imbrogli operati da alcune banche a danno dei propri clienti si sente parlare di bad bank (letteralmente di cattiva banca) così che le mascalzonate commesse dai vari istituti di credito, entrando nell'iperuranio di cui si è detto, non solo perdono la loro valenza criminale, ma acquistano i connotati di una dolorosa ineluttabilità. E che dire poi della stepchild adoption, altro termine incomprensibile ai più che il Corriere della Sera traduce con la chiarissima locuzione «adozione del figliastro»? Si ha forse timore di irritare la suscettibilità di certi cattolici fondamentalisti chiamando le cose con il loro nome? E non dimentichiamo l'annunciato family day al quale parteciperanno celebrati puttanieri e donne di mercenaria disponibilità. E spero non vi siate scordati dello spread che qualche anno fa ci toglieva il sonno. E che mi dite del jobs act o della regolarmente boicottata spending review o ancora del misterioso quantitative easing?

Avviene però che tale ottusa ma anche scaltra mania produca da sola i propri anticorpi e trovi in se stessa la propria nemesi attraverso il meccanismo dell'omofonia. Così è avvenuto che la disposizione entrata in vigore il primo gennaio di quest'anno e che proibisce il salvataggio con denaro pubblico delle banche abbia un curioso nome: bail in, assai prossimo nella pronuncia un sostantivo dialettale genovese che non ho bisogno di tradurre, ma che suona come il dovuto sberleffo a una sciagurata abitudine la quale rivela solo il patetico provincialismo di chi la pratica.

 

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