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Il coraggio, uno non se lo può dare

Lettres italiennes

Corrado Conforti

Monaco, 20 agosto -
“Il coraggio, uno non se lo può dare” dice, nel XXV capitolo dei Promessi sposi un contrito Don Abbondio al cardinale Borromeo che lo incalza con le sue domande. Il “povero sacerdote”, come lo stesso curato poco prima nei suoi pensieri definisce se stesso, ha ragione: coraggiosi non si diventa, e nessuno può andare contro la propria natura che, se è quella di un pavido, quella di un pavido rimane.
Certo, sarebbe bello potersi migliorare; ma se l'impresa è troppo ardua, già lo sforzo di accettare la propria indole, evitandole di dar origine a comportamenti dannosi, è comunque un'attività di meritoria. Purtroppo proprio la codardia, se non accettata da chi riconosce in essa un elemento del suo carattere, produce spesso effetti disastrosi. Sì perché un codardo cercherà di mostrarsi diverso da quello che è e si produrrà, nel corso di tale tentativo, in atti che lo sopravanzeranno e che immancabilmente gli sfuggiranno di mano, giacché difetta costui di quella forza che è propria soltanto di chi il coraggio effettivamente lo possiede. Non solo: per dimostrarsi coraggioso il pavido cercherà il confronto con chi è infinitamente più debole di lui, accanendosi, nel tentativo di misurare il suo animo sulla base della violenza prodotta, su chi non sa o non può difendersi, approdando in questo modo dalla codardia alla vigliaccheria, che è appunto la prepotenza del debole su chi per natura o circostanze, non è in grado di offendere.

La vita di ogni giorno e la storia sono piene di individui di questa pasta. Noi italiani, ahimè, non manchiamo di personaggi simili. Il più famoso, al punto di aver dato origine addirittura a un verbo, è quel Fabrizio Maramaldo che il 3 agosto del 1530 colpì con una pugnalata Francesco Ferrucci, suo prigioniero e capitano della Repubblica Fiorentina, lasciando poi che la sua soldataglia lo finisse. L'eroismo del Ferrucci è ricordato addirittura nell'inno di Mameli (ogn'uom di Ferruccio ha il core, ha la mano); la vigliaccheria del suo assassino si è lessalicalizzata nel verbo maramaldeggiare; cosa questa che ha permesso di definire con una sola parola i comportamenti di tanti i quali, dopo di lui, si sono prodotti in atti vili e canaglieschi.

Non tutte le migliaia di Maramaldi che hanno maramaldeggiato nel corso dei secoli successivi hanno lasciato un segno; la maggior parte di essi ha consumato le proprie miserie morali rotolandosi in un fango che la storia ha poi lavato. Altri, uno in particolare, hanno compiuto atti di una tale bassezza che le ferite prodotte, se pure non sanguinano più, producono ancora effetti deleteri. Pensiamo a quel figlio di un fabbro nato nel 1883 a Dovia di Predappio e cresciuto, grazie ai suoi tanti tradimenti personali e ideologici, al punto di diventare il Duce degli italiani. Chi era costui se non un pavido, un codardo? Si racconta che già da ragazzino angariasse i suoi compagni di scuola, ma solo in virtù del fatto di avere sempre un coltello in tasca. E quando il 31 ottobre del 1922 pronunciò in Parlamento il famoso discorso in cui disse che avrebbe potuto trasformare l'aula di Montecitorio in bivacco di manipoli, poté farlo solo perché le sue squadracce, protette da un ordine di re ridicolo e vigliacco quanto lui, spadroneggiavano per Roma.

Quando poi, due anni dopo, l'assassinio di Matteotti, con la reazione che generò nell'opinione pubblica, sembrò annunciare la fine della sua sciagurata esperienza di capo del governo, poté di nuovo gonfiare il petto solo quando i suoi uomini lo rassicurarono che nulla gli sarebbe successo; a quel punto si disse con orgoglio il capo di quella ”associazione a delinquere“ (sic!) che era il fascismo. Manca lo spazio per ricordare tutti gli esempi di vigliaccheria di questo infinito codardo, catturato mentre, travestito da caporale tedesco, scappava in Svizzera; proprio lui che diceva ”se indietreggio uccidetemi“.

Purtroppo pochi individui imparano dai propri comportamenti e pochi popoli dalla loro storia. Così un altro codardo del calibro di quello appena descritto si è affacciato già anni fa sulla ribalta degli avvenimenti del Bel Paese. Incapace, per ignoranza e per meschinità d'animo di proporre obiettivi alti, ha presentato l'odio per gli ultimi della terra come scopo, usando lo stesso odio quale cemento di aggregazione, cosa facile, purtroppo, con un popolo che non ha mai fatto i conti con il suo passato e che per questo sembra pronto a scrivere altre pagine vergognose.

Smanioso di potere, il nostro ha mischiato livore, cattivo gusto e turpiloquio, pensando che, sdoganato il razzismo, poteva sdoganare anche la volgarità più plebea. Ma l'eccesso di sicurezza gli ha fatto commettere l'errore che ieri ne ha causato la caduta, che io mi auguro definitiva. Ieri, 20 agosto, si è esibito in uno sgangherato discorso in Senato di cui non vale rendere conto, se non per un particolare: ha ripetuto più volte la parola “paura”, perché, come dice il proverbio, la lingua batte dove il dente duole e perché come diceva Don Abbondio, „il coraggio uno non se lo può dare“. Ma, aggiungo io, può fingere di averlo.

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